giovedì 29 novembre 2018

"La guerra privata del ten. Guillet" di Vittorio Dan Segre



di Ettore Martinez


Vittorio Dan Segre, "La guerra privata del tenente Guillet", ("La resistenza italiana in Eritrea durante la seconda guerra mondiale") ediz. Corbaccio 2017

A differenza del famoso Lawrence d'Arabia, l'italiano Guillet non poté mai contare su finanziamenti e aiuti di alcun genere. Decise di continuare a combattere gli Inglesi in A.O.I. con una truppa tutta locale che trasformò in banda, sapendo di rischiare la fucilazione; il suo generale infatti aveva firmato la resa anche per lui. Questo libro, scritto da un ebreo palestinese scappato dall'Italia nel 1938, si basa parecchio, oltre che sulle sue conversazioni con il nostro tenente di cavalleria, sui documenti e le testimonianze degli ufficiali inglesi che cercarono sempre invano di sconfiggere e/o catturare Guillet. Troviamo riportata anche l'opinione che uno di essi se ne era fatta come di un esibizionista con manie di grandezza, dotato però di innegabili qualità militari. C'è da dire tuttavia che gli Inglesi hanno sempre cavallerescamente apprezzato e stimato Guillet, sul quale avevano anche inutilmente messo una taglia di mille sterline oro; e che dopo l'armistizio dell'8 settembre 1943 prima e dopo la fine della guerra (1945) poi, lo hanno assai onorato.In Italia invece poco si è sempre detto e saputo di lui.
Vittorio Dan Segre ha scritto questo libro (che si legge volentieri) nello stile impressionistico che è proprio della memorialistica militare. Le avventure, a momenti salgariane, di questo ufficiale -che si converte all'Islam restando cattolico e che prende nome abbigliamento e aspetto arabi al punto di vivere lui stesso una crisi d'identità- e dei suoi uomini, qualche italiano e molti etiopi, eritrei e ealtro ancora, non finiscono con la fine della sua guerriglia in Etiopia; proseguono infatti anche dopo, per mare e nel deserto.
La prima edizione di questo libro è del 1993, mentre Amedeo Guillet è morto a Roma nel 2010.


"Generale Antonio Basso" di Mauro Scorzato


[ immagine Fotostock, fototeca gilardi]   

di Mauro Scorzato

         



Gli avvenimenti che in Sardegna seguirono l’8 settembre 1943 sono stati oramai estremamente chiari sotto il punto di vista delle cronache ma, inspiegabilmente, le polemiche innescate dalla sostanziale “tenuta” delle Forze Armate di stanza nell’isola hanno continuato a fervere ben oltre i tempi.
Se da un lato infatti le autorità militari dell’isola hanno evitato lo sfaldamento delle unità del Regio Esercito, che ha caratterizzato l’8 settembre quasi ovunque nella penisola e in molte zone d’oltremare, dall’altro tali autorità sono state accusate di non aver saputo gestire tale saldezza spingendosi a porre una seria minaccia alle truppe tedesche che si trovavano sull’isola.
La contrapposizione tra storici “militari” e storici “militanti” si impernia sulla figura del Gen. Basso, comandante delle Regie Forze Armate (ancorchè generale dell’Esercito, aveva giurisdizione anche sulla Regia Marina e Regia Aeronautica, nonché commissario civile per l’intera regione) che permise la ritirata della 90^ Panzergranadieren Division dalla Sardegna alla Corsica senza imbastire quella battaglia di “annientamento” che il Gen. Roatta,( che si era prudentemente ridispiegato a Brindisi al seguito del resto dello Stato Maggiore) con la “memoria 44” presupponeva. 


Purtroppo l’arte militare insegna che una battaglia di annientamento può essere condotta o contro forze isolate le cui capacità di combattimento siano state già notevolmente compromesse o contro forze su cui si abbia una soverchiante superiorità: ed è su questa seconda fattispecie che gli storici “militanti” criticano l’operato di Basso. Con calcoli più di natura ragionieresca, ritengono che il rapporto di 130.000 italiani contro 30.000 (scarsi) tedeschi sarebbe stato sufficiente a garantire una sfolgorante vittoria da esibire ai nuovi alleati così come la novella Giuditta (il gen. Basso) avrebbe esibito la testa di Oloferne, impersonato dal il Gen. Lungershausen, comandante della 90^. Purtroppo il calcolo dei rapporti di forza in un combattimento non è esercizio da Istituto Tecnico Commerciale e richiede capacità di analisi ben superiori alla logica degli “8 milioni di baionette” che dai tempi delle Termopili non sono mai state sinonimo di vittoria. Se, infatti, da un lato il numero delle bocche da fuoco degli italiani era molto superiore, la loro mobilità era di fatto risibile ma, fattore ben più grave, non si disponeva del numero di autocarri per il trasporto delle munizioni nei luoghi dove queste bocche da fuoco avrebbero dovuto essere rischierate. Per i mezzi corazzati la situazione era ancora più seria: 4 battaglioni carri M e i Somua 35 (preda bellica dei francesi con ridotte disponibilità di pezzi di ricambio) non potevano certamente tenere testa ai ai panzer IV e simili corazzati tedeschi né per caratteristiche tecniche né (e soprattutto) per addestramento del personale: si deve tenere presente che nella parte finale del conflitto i carristi tedeschi ritenevano accettabile in combattimento 1 contro dodici contro carri russi e americani.
Il supporto aereo di Basso era limitato a circa 4 caccia bombardieri con bombe da 50 kg, mentre era molto probabile che per evitare l’annientamento della 90^ Kesserling (comandante delle forze tedesche in Italia) avrebbe reimpiegato i Dornier con bombe a guida terminale che tanto danno avevano fatto alla flotta italiana affondando la “Roma” del “Vivaldi” e il “Da Noli” .

Ma quello per cui Basso aveva i più seri motivi di preoccupazione era il “force multiplier” per antonomasia: il morale delle forze. Il fatto che le unità del Regio Esercito presenti in Sardegna non si siano sbandate come la maggior parte di quelle dispiegate nel continente, non sta a significare che lo sbigottimento e l’incertezza non si fossero diffusi nelle truppe: per quanto riguarda la Div. “Nembo” la defezione del battaglione Rizzatti non era stata un episodio sporadico ma una presa di posizione in una furibonda diatriba su come la divisione si dovesse comportare nel frangente; il battaglione Rizzatti era semplicemente il reparto dove tutti i militari erano d’accordo di schierarsi con i tedeschi, ma tale opinione era molto diffusa, sebbene non prevalente, anche in altri reparti della Divisione. 


Il Ten. Col. Bechi Luserna, Capo di Stato Maggiore, era stato infatti inviato dal Comandante Gen. Ronco (dopo che il suo tentativo era miseramente fallito) a dissuadere i disertori proprio per il fatto che erano arcinote a tutti le posizioni fortemente critiche del Bechi Luserna nei confronti degli alti gradi dell’esercito, tanto lo stesso aveva richiesto il passaggio della Divisione dall’Esercito alla Regia Aeronautica (arma molto più “fascista”) per por fine alle miserevoli condizioni in cui erano mantenute le truppe. Anche buona parte dell’artiglieria costiera e contraerea erano nelle mani della Milizia Volontaria, inquadrati da ufficiali di provata fede fascista che a posteriori oggi sappiamo essersi comportati in maniera fedele al nuovo regime (aprirono infatti il fuoco contro i tedeschi alla Maddalena), ma al tempo fornivano limitate garanzie, anzi per qualche tempo si è temuto una rivolta di queste unità. 


Certamente era da concordare con il Spanu Satta che descriveva Basso come un “diligente burocrate meridionale militare attento, scrupoloso e anche intelligente, ma al quale non si poteva ne’ si doveva chiedere di più di quanto potesse dare” ma altrettanto si doveva fare con le truppe ai suoi ordini: infatti a fronte di qualche comandante sicuramente di esperienza e ben motivato (per fare alcuni nomi il Ten.Col. Sardus Fontana e il Magg. Motzo, già noti militari dell’eroica brigata “Sassari”), la risposta al combattimento della maggior parte delle sue forze, specialmente in caso di gravi perdite, come inevitabilmente sarebbe stato, era tutta da provare. 
Ma probabilmente Basso provava quella sensazione di isolamento che tanto grava sui comandanti nei gravi momenti: la sostanziale latitanza della catena di comando, il dover sopportare da solo l’ipotesi di un eventuale fallimento in uno scontro i cui esiti erano tutt’altro che scontati probabilmente era qualcosa di più di quanto potesse dare, dopo tutto 3000 anni di filosofia militare da Sun Tzu a Liddell Hart passando per Von Clausewitz non hanno dubbi sul metallo da impiegare per costruire ponti al nemico che fugge.
Ne’ poteva immaginare il Basso che nel futuro un gruppo di intellettuali avrebbe provato il profondo rincrescimento per non aver nessuna strage nazifascista da commemorare sul territorio della Sardegna e i pochi morti della lotta di liberazione fossero sostanzialmente militari, per i quali, fino a poco tempo fa poca pena ci si poteva dare: il sacrificio della Div. “Acqui” a Cefalonia con 3000 morti circa viene tutt’ora messa in seconda fila nelle commemorazioni del 25 Aprile.

Sul piano personale però Basso pagò molto, prima con l’arresto da parte dei tedeschi delle 2 figlie e la deportazione in Germania del genero, nonché con due anni di custodia cautelare in attesa di essere assolto dall’accusa di non aver eseguito gli ordini di attaccare i tedeschi: una corte militare che forse aveva molto ben chiara la situazione decise che nel comportamento di Basso non fossero riscontrabili estremi di reato.

Chi scrive non può definirsi uno studioso della storia della Resistenza, ma per estrazione familiare è venuto a contatto con gli ordini dei CLN (Comitato di Liberazione Nazionale) del Basso Veneto: gli ordini di tali comitati imponevano lo stesso comportamento tenuto dal Gen. Basso: lasciar passare i tedeschi in ritirata limitandosi ad azioni offensive qualora questi cercassero di sabotare linee di comunicazione. Purtroppo la contravvenzione a tali disposizioni, generalmente da parte di partigiani improvvisati alla ricerca di facile gloria, portarono a gravissime rappresaglie di cui si studia ancora oggi.                                            

                                    
           

"Regio Esercito: L'8 Settembre in Sardegna" di Emilio Belli. Segnalazione.



di Ettore Martinez




Che cosa successe in Sardegna al momento dell'armistizio fra Italiani e Alleati, dopo l'8 settembre del 1943? I soldati tedeschi stanziati nell'Isola, nel giro di qualche giorno, la abbandonarono, ritirandosi in Corsica. Furono seguiti dalla divisione paracadutisti "Nembo" che si rifiutò di obbedire agli ordini del re e arrivò a giustiziare il tenente colonnello di S.M. Bechi-Luserna che aveva tentato di riportarla all'ordine dell'esercito regio.  Quindi non ci fu conflitto. In Sardegna non ci sono state rappresaglie nei confronti della popolazione, non c'è stata guerra civile: questa probabilmente è stata, insieme all'arretratezza economico-sociale, una delle ragioni per le quali, al momento di scegliere fra monarchia o repubblica, al referendum istituzionale del 2 giugno 1946, i Sardi votarono in maggioranza per la prima. Torniamo però all'accordo stretto fra il comandante delle unità germaniche presenti in Sardegna, il Generalmajor C.H. Lungerhausen (da tener presente: decorato con medaglia d'argento italiana al valor militare) e il Generale italiano di C.D'A. Antonio Basso comandante interforze delle truppe italiane in regione. Sull'opportunità e le modalità di questo accordo esistono da tempo due scuole di pensiero: chi critica duramente Basso per avere lasciato andar via, pur trovandosi in netta superiorità numerica, quasi senza colpo ferire l'ex alleato ora divenuto nemico e chi invece ne apprezza la sagacia, vista anche la superiorità avversaria quanto ad armamenti e mezzi di locomozione, anche corazzati. Basso avrebbe avuto altresì il merito di risparmiare ulteriore sofferenza alle popolazioni civili e di salvaguardare un'organizzazione logistico-militare che si rivelerà in seguito preziosa per la ricostruzione dell'esercito italiano a partire dalla Campania.

L'argomento è nitidamente ricostruito dal ricercatore studioso di cose militari Emilio Belli. il quale su "Storia Militare", Num. 271-272 (aprile-maggio) 2016 -"Regio Esercito: L'8 Settembre in Sardegna" ricostruisce dettagliatamente le modalità del ritiro tedesco e le manovre di controllo e di continuo incalzo realizzate su ordine di Basso; egli prende chiaramente posizione in favore del gen.le Basso che nel 1944, dopo gli immediati riconoscimenti e i successivi incarichi, verrà rinchiuso in fortezza per 22 mesi e poi finalmente assolto da ogni accusa dopo un processo. Per quanto specialistico, questo lavoro -corredato da una ricca bibliografia- è abbastanza agevolmente consultabile anche dai non addetti ai lavori. Un altro pezzo di Storia della Sardegna.


mercoledì 28 novembre 2018

"Gli intrepidi Sardi della Brigata Sassari" di Leonardo Motzo



di Ettore Martinez



“L'opera di Motzo si colloca, perciò, a metà strada fra la memorialistica e la storiografia militare vera e propria” scrive Manlio Brigaglia nella sua breve e bella Introduzione a questo libro. Il testo è infatti a tratti piuttosto tecnico e non è sempre agevole orizzontarsi bene fra tutti gli spostamenti di divisioni, reggimenti, battaglioni e persino compagnie. Esso non si esaurisce quindi nelle frequenti avvincenti descrizioni impressionistiche di situazioni e ambienti e fenomeni atmosferici, che pure sostanziano il libro di elementi narrativi. Per questa ragione il libro di cui stiamo parlando viene unanimemente considerato il migliore testo sull'argomento dal punto di vista della Storia militare.

“Gli intrepidi Sardi della Brigata Sassari” ebbe la sua prima edizione nel 1930 ma non vi si trova alcun accenno al Fascismo: Mussolini viene citato una sola volta insieme a Corridoni in relazione al capitano Deffenu, in quanto tutti e tre socialisti interventisti. C'è anche da dire che non mancano righe altamente elogiative nei confronti di Emilio Lussu, antifascista che allora si trovava in esilio. Motzo non ne fa esplicitamente il nome ma ce lo descrive in maniera tale da non lasciare adito a dubbi.

Eviterò ovviamente di ripetere gli episodi, alcuni neanche tanto noti al grande pubblico, nei quali vengono fotografate e valutate le caratteristiche salienti degli uomini della Sassari e rivissuti momenti fortemente drammatici. I Sardi della Sassari, compresi quelli che sardi non erano, fra gli ufficiali: uomini “fatti apposta per questa guerra d'imboscata” (p.226), che come è noto avevano riprodotto sul fronte tutta una serie di costumanze tipiche dei loro paesi, compresi i canti a tema. Spesso a corto di munizioni si lanciavano all'arma bianca contro il nemico riuscendo a volte addirittura a rovesciare le sorti del combattimento proprio quando sembravano perse. Ci riferiamo, per esempio, agli episodi che videro protagonisti il capitano Fiumi (un contrattacco) e lo stesso Emilio Lussu (rottura di accerchiamento), in due diversi momenti della guerra.

Come è noto, a Pozzomaggiore (SS) i reduci daranno inizio al loro ritorno dalla guerra alla tradizione di una corsa di cavalli come quella di Sedilo, per ringraziare il cielo di essere tornati vivi da questo immane bagno di sangue e racconteranno di essersi battuti spesso, senza più munizioni, all'arma bianca -ma non tanto con la baionetta, bensì con la leppa, con la pattadese.

Tornando al libro, un episodio che comunque voglio evocare e che viene raccontato con forte tensione emotiva da Motzo è quello della battaglia di retroguardia avvenuta a Codroipo poco dopo la rotta di Caporetto, in quella che fu una specie di Stalingrado “ante litteram” in scala ridotta. Qui la coda della Brigata Sassari, che si trovava alla retroguardia di un esercito, quello italiano, in parte in ritirata in parte in rotta, fu aggredita da truppe scelte tedesche in avanzata, proprio mentre stava per abbandonare la piazza del paese. La reazione diede luogo a un feroce combattimento casa per casa, orto per orto, strada per strada. Va tenuto presente anche che “proprio in quei giorni circa il 50% (grosso modo) degli effettivi si trovava in licenza in Sardegna per partecipare alle 'paci di Posada' che posero fine alla grande faida di Orgosolo” (Mauro Scorzato).

Insomma, successe anche questo infine, che lo stato italiano e l'alto comando riconobbero valore, dignità e utilità a questa riconciliazione al punto di privarsi di tanti soldati di élite proprio in un momento militarmente così difficile come quello.

martedì 27 novembre 2018

"Addio alle armi" di Hemingway e oggettività storica



di Ettore Martinez


L' edizione Oscar Mondadori a sinistra, del 1965, del famoso romanzo di E. Hemingway ci mostra in copertina il ritratto di un personaggio che assomiglia anche troppo a Rock Hudson.
L'attore americano nel 1957 era stato protagonista di un (secondo) film tratto da questo romanzo e l'editoria aveva già da tempo imparato a utilizzare le immagini degli attori per incrementare le vendite dei libri. [Ancora adesso del resto in tantissimi si associa Maigret all'immagine disegnata di Gino Cervi.] Questa edizione si giova di una introduzione dell'Autore scritta nel 1948. Fra le altre cose leggiamo: "Ma soprattutto ricordo di aver vissuto nel libro e di aver inventato ogni giorno ciò che vi accadeva". Sottolineo questo passaggio perché, come è noto Hemingway aveva partecipato alla Prima Guerra mondiale proprio in Italia come volontario della Croce Rossa ed era rimasto anche ferito in azione di soccorso. Il libro del quale stiamo parlando, questo, fu censurato dal Fascismo perché ritenuto offensivo dell'onore dell'Esercito Italiano. Restò vietato sino al 1945. Ferma restando l'inappellabile e completa condanna che la Storia ha pronunciato sulla dittatura fascista, anche in termini militari, resta ora da vedere se la descrizione che Hemingway ci dà di Caporetto come di una caotica disfatta punteggiata di improvvisati tribunali militari presieduti da giovani tenentini privi di qualsivoglia esperienza che mandavano con supponenza alla fucilazione ufficiali superiori d'esperienza e valore  semplicemente perché visti tornare indietro con la truppa, corrisponda all'effettiva verità storica. Un po' come per altri versi il film di Rosi "Uomini contro", anche questo libro, per decenni, ha costituito una sorta di manuale storico unico sull'argomento, senza esserlo e senza neanche pretendere di esserlo e per giunta con fascismo e militarismo morti e sepolti. Sull'argomento occorrerà tornare ancora.



domenica 25 novembre 2018

Dopo Caporetto (recensione de "La battaglia dei Generali", di Paolo Gaspari, 2013)



di Ettore Martinez


Paolo Gaspari, "LA BATTAGLIA DEI GENERALI"
2013, Gaspari editore

'La vittoria di un ripiegamento è quella di mettere in salvo più uomini e mezzi possibili per riprendere la lotta su linee appropriate" (P. Gaspari, op.cit., pag.187).

In linea di massima quasi tutti, a Scuola, abbiamo studiato -e a volte, dopo, anche insegnato- come dopo la "disfatta" di Caporetto del 23-24 Ottobre 1917, l'Esercito italiano sia riuscito faticosamente a creare una efficace linea di resistenza sul Piave.

In questo suo interessantissimo libro, pubblicato due anni prima dell' inizio delle commemorazioni italiane della Grande Guerra (15-18), Paolo Gaspari ci descrive che cosa successe al nostro Esercito, in parte in ritirata, in parte in rotta, proprio nei giorni intercorrenti fra Caporetto e il suo passaggio al sicuro oltre il fiume Tagliamento.
Nonostante le gravissime perdite in uomini e materiali e le decine di migliaia di prigionieri lasciati al nemico, il grosso del regio esercito riuscì a portarsi in salvo insieme alle sue dotazioni.

Gaspari ci racconta proprio come si sono svolti tutta una serie di combattimenti di retroguardia che hanno consentito alla 2a e alla 3a Armata (guidata quest'ultima dal Duca D'Aosta) di non finire circondate e annientate.

Diciamo subito che questo è un libro, se non per esperti, per lo meno per appassionati di Storia militare e che non è stato facile farsi un quadro complessivo per "summa capita" dell'accaduto. Più fruibile senz'altro la ricostruzione di singoli episodi che riesce a trasmetterci tutto il pathos di quella che dovette essere la dimensione militare di quei giorni. Fatta di tanta gente che scappava in modo disordinato incalzata dalle Truppen germaniche, assai bene armate e motivate alle quali spesso si arrendeva, ma fatta anche di tanti costosi contrattacchi e difese a oltranza.

Ci si riferisce, fra gli altri a episodi quali la drammatica carica di cavalleria di Pozzuolo del Friuli o la battaglia casa per casa di Codroipo; episodi di retroguardia che rallentarono l'avanzata germanico-austriaca il tempo necessario per consentire la ritirata del grosso. Come è noto, a Codroipo si distinse la Brigata Sassari, con Lussu e Musinu in testa; secondo Gaspari fu sui sassarini che ricadde il maggior peso di quegli scontri tanto coriandolari quanto sanguinosi.
Il generale della Brigata Sassari A. Tallarigo che, a differenza di altri suoi colleghi, era rimasto in coda alla colonna dei suoi uomini, rimasto isolato con pochi dei suoi, dopo essersi difeso armi alla mano, verrà fatto prigioniero anch'egli, come diversi altri Generali e ufficiali superiori, dai Tedeschi. A lui è dedicata la foto di copertina di questo libro.

Dal punto di vista strettamente tecnico, Gaspari annette importanza decisiva alla grande disponibilità da parte dei reparti tedeschi delle mitragliatrici leggere MG 08/15 in quelle che furono operazioni ormai già di moderna guerra di movimento. Non tutti gli esperti però, pur concordando su questa maggiore disponibilità tedesca di armi automatiche, le riconoscono un'importanza così decisiva nei fatti di quei giorni.

Da tutti questi resoconti parziali, dalle testimonianze, emergono anche alcune cose un po' particolari quali, ad esempio, il fatto che le truppe nemiche siano state viste essere indirizzate o guidate durante le operazioni, da uomini in borghese.





sabato 24 novembre 2018

I carabinieri e il fuoco amico sui soldati, di Mauro Scorzato e Ettore Martinez


[Fotografia: Inverno 1918,  Fonte: Imperial War Museum di Londra]


di  Mauro Scorzato e Ettore Martinez


Grande guerra 1915-18. I carabinieri e il fuoco amico sui soldati.

Quella infinita serie di gradoni, al sacrario di Redipuglia, su ognuno dei quali è scritto "Presente", ospita migliaia di salme di soldati caduti durante la Grande guerra del 1915-18. Di certi compaiono nome, cognome, grado e reparto di appartenenza, di altri solo il nome proprio e a volte neanche quello. In proporzione al numero, rispetto ai soldati di fanteria, artiglieria, etc., di carabinieri ce n'è effettivamente tantissimi di meno. Qualcuno potrebbe magari pensare che i RRCC (Reali carabinieri) non siano praticamente mai stati impiegati come soldati di linea ma abbiano svolto esclusivamente compiti di polizia militare. Effettivamente a loro spettava appunto di svolgere questa funzione (di P.M.) e di vigilare sulle retrovie; questo però non ha impedito che alcuni loro reparti venissero impiegati in prima linea, senza per giunta che neanche avessero avuto uno specifico addestramento in tal senso. Circa la voce che gira, inutile negarlo, che a volte i Carabinieri Reali spazzassero il terreno con le mitragliatrici alle spalle dei nostri fanti per spingerli all'attacco quando questi proprio non se la sentivano, c 'è da dire che se anche i nostri comandi -tutt'altro che teneri e comprensivi- avessero voluto ciò, non si capisce come avrebbero potuto, visto l'esiguo numero dei Carabinieri di cui disponevano:
« ... infatti , su 56.000 carabinieri alle armi nel 1915 (circa la metà di quelli di oggi) il Comando Generale decise di schierarne sul fronte solo 19.800 per tutti i compiti , compresi quelli organicamente inquadrati nelle Brigate e il reggimento Carabinieri mobilitato. Complessivamente a fronte di un milione e mezzo di uomini al fronte, si poteva contare 1 Carabiniere ogni 75 soldati; la Brigata Sassari per esempio, disponeva in tutto di sette Carabinieri su una forza di 6000 uomini circa. Approfondendo i motivi di una così ridotta partecipazione si nota come la situazione domestica durante la 1^ G.M. invitava a tutto tranne che a sguarnire i territori dalla presenza dello Stato, visto che la già precaria situazione dell'ordine pubblico veniva aggravata specialmente nelle regioni meridionali dalla presenza di innumerevoli renitenti alla leva datisi alla macchia. Una leggenda insomma, quella del “fuoco amico” alle spalle, smentita anche dal fatto che fino al 1917 i Carabinieri non avevano le mitragliatrici, tant'è che per il fatto d'armi del Podgora (o Monte Calvario) le mitragliatrici vennero prestate ai RRCC dal 36° Rgt . Fanteria”.» (Mauro Scorzato)
C'è da dire poi che negli anni Settanta, in pieni conflitto sociale e polemica antimilitarista, spesso anche antimilitare (viene in mente ad esempio il film “Uomini contro” ), vennero fuori tutta una serie di vere e proprie leggende sui carabinieri che sarebbe il momento di rivedere dal punto di vista storico, prescindendo una volta per tutte dalla politica. Tornando un po' più indietro nel tempo è interessante al riguardo anche il romanzo storico di Ernest Hemingway “Addio alle armi”, pubblicato nel 1929 e censurato dal Fascismo (perché ritenuto oltraggioso nei confronti del nostro Esercito), nel quale i “velieri”, cioè i carabinieri, non vengono propriamente ben trattati ma che, ricordiamolo è un romanzo e non un libro di Storia. Non è da escludere che la censura fascista subita dal romanzo di Hemingway, abbia finito per accreditarne il valore documentario molto al di là dei suoi limiti oggettivi. «Alle origini di questa voce dei CC "mitraglieri" sembra comunque essere stato Angelo Del Boca, ex presidente dell'ordine dei giornalisti, ex membro della "Monterosa" (alpini della RSI) squagliatosi sul versante opposto al cambiare dei venti, poi divenuto di fatto un giornalista storico dell'avventura italiana nell'Africa Occidentale ( laddove discuterne nei primi anni '70 veniva abbastanza facile ) il quale ha sempre sostenuto di aver aderito alla RSI per poter tornare in Italia (la Monterosa venne addestrata dai tedeschi in Germania) pronto al combattimento (????).» (Mauro Scorzato). Restiamo comunque in attesa, se ci sono, di dati documentati al riguardo, con spirito di aperta acribia storica. La Storia infatti è sempre revisionista.



Gli Armeni in Italia durante la Grande Guerra (1915-18)



di Ettore Martinez


Gli Armeni in Italia durante la Grande Guerra (1915-18)

La presenza armena in Italia è molto antica. Nel 1715 una loro Congregazione era già insediata a Venezia. Dal punto di vista religioso gli Armeni sono un popolo cristiano di osservanza monofisita. Nel 1915 l'italia ruppe le relazioni diplomatiche con l'Impero ottomano e ritirò conseguentemente il suo personale dalla Turchia. Ma i nostri diplomatici e quindi i nostri apparati governativi avevano già da tempo ben chiara la condizione armena e conoscevano i rapporti di questo popolo -già sottoposto in passato a feroci persecuzioni- con i Turchi. Sempre nel 1915 ebbe luogo quello che gli Armeni chiamano "Il Grande Male", un genocidio spietato che ispirerà addirittura tecniche di eliminazione fisica, quali la gassificazione, agli stessi nazisti. In questo stesso anno la presenza armena in Italia registra un forte aumento; un censimento governativo effettuato tre anni dopo, nel 1918, segnalerà sul nostro territorio la presenza di circa 7000 sudditi ottomani non turchi. Con l'entrata in guerra dell'Italia gli Armeni ivi residenti si trovarono nella doppia condizione di sudditi di un paese nemico e di rifugiati amici. A quanto pare le nostre autorità non ci misero molto a fidarsi (per lo meno in linea di massima) degli Armeni e a favorirne l'integrazione, ma ci volle del tempo perchè tutte le varie diramazioni della nostra Pubblica Amministrazione recepissero questo orientamento e perché le varie indagini effettuate su singoli elementi armeni dessero sistematicamente risultati rassicuranti.
Nello stesso tempo gli Armeni, peraltro sostenuti e apprezzati negli ambienti più diversi, facevano del loro meglio non solo per ribadire la loro fedeltà all' Italia ma anche per sdebitarsi concretamente nei confronti del Paese ospite. Fu così che gli Armeni di Milano, dopo Caporetto, raccolsero con una circoscrizione la somma di 5100 lire a favore dei profughi friulani e veneti sfollati al Sud in seguito all'occupazione austriaca. Il Comitato armeno d'Italia poi, nella persona del suo presidente G. Dilsizian istituì un premio ("una singolare e quasi inverosimile iniziativa", secondo A. Manoukian) in onore dell'asso dell'aviazione Francesco Baracca che sarebbe andato a cinque aviatori italiani che avessero abbattuto ciascuno 34 velivoli nemici; essi avrebbero riscosso 5000 lire ciascuno.
Una terza iniziativa fu quella dell'apertura, nel gennajo del 1918, a spese della comunità di Milano, di un "reparto armeno" presso l'Opedale della Croce Rossa "Principessa Jolanda". 


Se sulla questione armena non è difficile reperire materiale qualificato di consultazione, sugli Armeni in Italia e per questa nostra nota, ci siamo avvalsi del testo "Presenza Armena in Italia (1915-200)" Ediz. Guerini e Associati, del prof. Agop(ik) Manoukian.

giovedì 22 novembre 2018

SULLA RITIRATA DOPO CAPORETTO recensione di Mauro Scorzato ("La battaglia dei Generali", Paolo Gaspari, 2013)


LA BATTAGLIA DEI GENERALI  di Paolo Gaspari 
Da Codroipo a Flambro il 30 ottobre 1917

Recensione di Mauro Scorzato

Il libro di Gaspari tratta di una parte poco conosciuta della 1^ Guerra Mondiale sul fronte italiano ovverossia dei combattimenti che seguirono lo sfondamento sulla zona di Caporetto fino al consolidamento sulle sponde del Piave: l’opera, in particolare tratta di quanto accaduto tra Udine e il fiume Tagliamento. Di questa parte della Grande Guerra, che di solito viene inglobata nella dizione “la disfatta di Caporetto”, di cui, di solito, si conosce a malapena la battaglia di Pozzuolo del Friuli dove la Cavalleria italiana si immolò nella omonima cittadina friulana caricando furiosamente alla sciabola le truppe austro-ungariche per permettere alla 3^ Armata si superare il fiume Tagliamento e ripiegare quindi sul Piave. Quasi contemporaneamente, presso Codroipo altre unità dell’esercito tra cui la Brigata Sassari, contendevano alle migliori unità tedesche, i granatieri del Wurtemberg, il possesso del centro abitato per permettere lo sfruttamento dei ponti meridionali sul succitato fiume alle truppe in ritirata prima e poi permettere il brillamento di tali ponti al Genio, negandone quindi l’agibilità al nemico.
In questi episodi il Gaspari individua per la prima volta ufficiali di alto grado che si battono fianco a fianco con i loro soldati dividendone le armi e munizioni e condividendone le fatiche e i sacrifici e non solo: un intenso lavoro di archivio con cui l’autori non ha semplicemente descritto una serie di scontri tra opposte formazioni ma ha anche dipinto nei particolari gli ufficiali che ne prendevano parte, fornendone dettagli biografici, abilità e debolezze, comportamenti eroici o codardi. Per la prima volta, lo stereotipo dell’ufficiale lontano e cinico al limite delle psicopatia, cede il passo a una figura ben delineata nel suo passato, descritta nei suoi comportamenti e criticata con riferimenti a fatti ben precisi: non tutti ne escono bene, ma comunque la discussione rimane aperta (perlo meno ai competenti e onesti) e non vi è alcuna condanna preconcetta.
Per analizzare compiutamente le circostanze descritte dall’opera dobbiamo purtroppo fare riferimento alla “Tattica”, branca dell’arte militare che si occupa della gestione delle battaglia, secondo cui la manovra offensiva si compone delle seguenti fasi: “occupazione delle basi di partenza”, “attacco”, “rottura delle linee difensive” e “annientamento”. Se si consuma quest’ultima fase la guerra è da considerarsi terminata: per evitarlo, il difensore (noi italiani) conduce un tipo di battaglia che si chiama “manovra in ritirata”( la più difficile in assoluto) in cui sacrificando una parte delle sue forze cerca di conservarne il “grosso” per riorganizzarsi e ripassare all’offensiva. Se il “grosso” si sottrae all’”annientamento” la manovra in ritirata deve considerarsi un successo. Questi pochi, basilari concetti di Tattica sono certamente alla base della comprensione del libro, per cui, altrimenti, ordini che portarono al sacrificio di alcune unità, sembrerebbero destituiti di qualsiasi fondamento di logica. 
Per quanto riguardo lo svolgimento minuto degli scontri, il Gaspari individua nella enorme disponibilità di mitragliatrici leggere delle “Truppen” il fattore decisivo: il reggimento tedesco disponeva di 120 mitragliatrici leggere (quindi estremamente mobili) contro le 12 mitragliatrici pesanti (quindi vincolate al trasporto da soma) di un reggimento italiano: tenendo conto che le truppe italiane erano già reduci da altri scontri e farraginose ritirate, quasi mai l’organico era completo: l’enorme volume di fuoco manovrato accortamente sul terreno aveva sempre e comunque la meglio sulle generose ma scarsamente equipaggiate di armi automatiche truppe italiane. Purtroppo non viene messo nella dovuta evidenza che tutte le 120 mitragliatrici tedesca sparavano sempre, con un consumo notevole di munizioni costantemente disponibili mentre il filo conduttore da parte italiana era la spasmodica ricerca di munizioni che venivano quasi sempre trovate spogliando altri reparti che si ritiravano: nella narrazione comunque molto dettagliata non c’è un solo episodio di scontri in cui un reparto italiano viene rifornito dalle retrovie, mentre viene riportato che un ufficiale comandante di un reparto mitraglieri preso prigioniero dopo aver fatto distruggere le armi prive di munizioni vede i tedeschi fermi, con il posto comando installato, che ricevevano rifornimenti: forse il trascinarsi questa enorme quantità di munizioni avrà rallentato la progressione, ma sicuramente ha permesso di prevalere in diversi scontri in cui, in caso contrario la progressione sarebbe stata arrestata. Al contrario a Codroipo, da parte italiana, l’arrivo di un treno con viveri e munizioni viene usato come pietosa bugia per galvanizzare il morale dei difensori: eppure le linee di rifornimento germaniche si allungavano ad una velocità mai provata prima nella guerra, mentre le truppe italiane si avvicinavano sempre di più ai loro magazzini territoriali. Da altre fonti si apprende che in quel periodo alcuni autieri del Corpo dei trasporti tedesco venivano decorati per l’enorme sforzo di mantenere il flusso dei rifornimenti, guidando anche per 30 ore di seguito in condizioni non certamente paragonabili ai camionisti di oggi. Al contrario, i carrettieri e gli autisti di parte italiana vengono mostrati dal Gaspari come costantemente proni a sbandarsi, creando problemi al movimento delle unità da combattimento una volta abbandonati i mezzi sulla strada, servendosi dei traini più per fuggire celermente che per portare in salvo i materiali; mentre la truppa dei reparti combattenti viene mantenuta nei ranghi da con metodi decisi (e a volte brutali) dagli ufficiali, ottenendo comunque risultati accettabili contro le forze tedesche ogni qual volta lo spirito dei gradi superiore si manteneva, gli addetti ai rifornimenti italiani sembrano inesorabilmente destinati allo sbandamento, privi di qualsiasi guida o direzione, con un'unica preoccupazione: la propria incolumità. Ma non avevano costoro una catena gerarchica ? Degli ufficiali che ne fossero responsabili? Certamente il Corpo degli ufficiali di Intendenza esisteva, ma sicuramente non aveva subito la selezione che da una parte il fuoco e dall’altra il Cadorna avevano effettuato sulla generazione degli ufficiali di Arma base. Da parte italiana gli Stati Maggiori, che per i non iniziati sono quella organizzazione di comando che deve supportare l’attività decisionale del Comandante, erano piuttosto composti da ufficiali che avevano influenti amicizie e che preferivano rimanere distanti dai rischi del Comando (e del piombo austro-ungarico).
Una delle ragioni del disastro di Caporetto, che ritroveremo in seguito in tante altre battaglie un cui vedremo protagonisti gli italiani, è la differente concezione dell’azione di comando tra i contendenti: per i tedeschi il Comandante è il supremo coordinatore dell’azione del suo Stato Maggiore, equilibratore di sforzi tra parte combattente e parte di supporto al fine di ottenere i suoi fini strategici (che ha oltremodo chiari e incontrovertibili) mentre per gli italiani prevale la visione messianica del Comando: il Comandante è l’uomo investito da Dio di tutti i poteri per condurre alla vittoria, ogni rovescio è la prova della revoca dell’approvazione divina e gli Stati Maggiori si devono porsi prontamente in salvo per servire il prossimo inviato dalla Provvidenza (i fini strategici si decidono strada facendo).
Infatti chi si occupa in modo meno sporadico di storia militare avrà notato che ben raramente le truppe italiane sono state sconfitte sul campo: la crisi nella maggior parte delle battaglie nasceva sempre dalla mancata alimentazione dello sforzo, dalle carenza di ordini, dal silenzio e dall’inerzia delle retrovie, supporto di fuoco e artiglieria comprese. Il gran numero di prigionieri deriva infatti dalla reale mancata possibilità di proseguire la lotta: nelle piccole unità, con meno esigenze logistiche o più marcata autonomia e dove l’esempio del Comandante poteva facilmente raggiungere ogni membro (vedasi alpini o arditi, ma anche le bande irregolari della guerra d’Africa nel secondo conflitto) ciò era molto meno sentito.
In ogni caso si deve dare atto che, nonostante la farraginosa gestione e alcune sciagurate decisioni, la disparità di forze nonché del morale delle stesse, come ci fa notare il Gaspari nella fase finale dell’opera, la manovra in ritirata si può dire completamente riuscita: il “grosso” delle nostre forze ( la 3^ Armata e buona parte della 2^) riuscì ad attraversare il Tagliamento frustrando il tentativo austro-tedesco di tagliare la ritirata da Nord e dieci giorni dopo, sul Piave gli italiani fermarono definitivamente quell’avversario (sempre così fornito di mitragliatrici).
Ma è da considerarsi una vittoria?? Di fronte a questa domanda non può non sovvenirmi un vecchio film con Albero Sordi e David Niven, “i due Nemici” ambientato nella campagna d’Africa nel ’42 dove il Cap. Blasi (Sordi) critica gli inglesi con il prigioniero Magg. Richardson (Niven) dicendo che gli Inglesi erano stati sconfitti a Dunkerque e non avevano per niente fantasia. La risposta di Niven fu: “Abbiamo abbastanza fantasia da considerare Dunkerque una vittoria”. Se dunque il frettoloso abbandono da parte delle forze anglo-francesi della Francia può essere considerato una vittoria dalla limitata fantasia britannica, la illimitata fantasia italica può sicuramente riqualificare più positivamente quanto accaduto tra Udine e il Tagliamento, che tutto fu tranne che una “rotta”.

Il Tribunale Speciale del Fascismo ( "Il Tribunale del Duce" di Franzinelli)



di Ettore Martinez


Che il Tribunale Speciale per la Difesa dello Stato (1926-43) avesse, in quanto "speciale", soprattutto la funzione di colpire e perseguitare senza tanti complimenti l'antifascismo, lo sapevamo. Ecco, diciamo però che quel verminaio di servilismo e infamia meritava di essere portato alla luce più analiticamente dallo Storico e divulgato. Una volta identificato il partito con lo Stato (operazione questa che è propria dei totalitarismi) qualsiasi attacco, vero o presunto (a volte anche solo pensato o espresso a parole) al Fascismo andava giudicato secondo la logica dei tribunali di guerra, visto che ne andava della sopravvivenza stessa delle istituzioni. Al punto di giustificare la retroattività di reati che prima dell'istituzione del tribunale stesso tali non erano, come argomenterà il Gen.le Sanna, primo presidente del TSDS, sardo. Il Gen.le di divisione Carlo Sanna nel 1915-18 aveva avuto ai suoi ordini anche la Brigata Sassari ma non ne era stato il diretto comandante. Parecchi Sardi di rilievo hanno fatto parte di questo tribunale: anche Lussorio Cau ( Maresciallo dei CC, eroe di Morgogliai, colui il quale come Polizia Militare aveva scoperto i sacerdoti austroungarici che "confessavano" i soldati italiani divulgando poi molto cattolicamente i peccati ma non i peccatori) ne fece parte. La grande maggioranza dei Magistrati avevano un passato come ex combattenti, forse fu l'astio covato dopo la prima Guerra Mondiale. a farne dei carnefici eccezionali. Non fece invece parte del TSDS il Gen.le Leonardo Motzo, anch'egli ex combattente ferito tre volte e decorato quattro, rimasto nei quadri dell'Esercito anche a guerra finita, autore del fondamentale "Gli intrepidi sardi della brigata Sassari". Giova ricordare come in questo libro, scritto intorno al 1930 e quindi in pieno Fascismo, Motzo trovi il modo di citare (pur senza nominarlo) con ammirazione e affetto il commilitone di un tempo Emilio Lussu, allora in esilio in quanto oppositore politico del fascismo. Per quanto fare dell'antifascismo di maniera oggi sia spesso la scusa per parlare d'altro, conoscere e riflettere su queste cose non è mai fatica sprecata. Basato su documenti originali, questo lavoro lascia poco spazio alle interpretazioni.

Lussorio Cau, luci ed ombre ("Lussorio Cau, l'eroe di Morgogliai" di Michele Di Martino )

di Ettore Martinez

Il libro di cui vedete la foto di copertina, uscito quasi dieci anni fa (nel 2009) in una collana della Nuova Sardegna - che poi è una ristampa, col titolo modificato di una precedente edizione stampata tre anni prima- è oggi praticamente introvabile. Vi si ricostruisce la vita professionale del carabiniere a cavallo di Borore Lussorio Cau, uno dei protagonisti sul campo della lotta al banditismo sardo di fine Ottocento. Rispetto al quale l'autore del libro, un altro carabiniere, si preoccupa, con precisione storica di farci ben capire quanto poco ci fosse di romantico nelle figure sanguinarie dei briganti e delle loro famiglie e quanto costassero i loro privilegi alla popolazione in termini di libertà personale e di beni materiali. Questo va sottolineato perché ancora oggi certi residui di questo genere continuano a vivacchiare. Se poi andiamo a leggerci "Storia della Mafia" di Salvatore Romano finiamo per imbatterci grosso modo nelle stesse testimonianze storiche e nelle stesse considerazioni a proposito di una certa mitologia alla "Robin Hood". La carriera di Lussorio Cau è un susseguirsi di promozioni e decorazioni tutte guadagnate rischiosamente sul campo. L'episodio per il quale maggiormente viene ricordato è lo scontro a fuoco di Morgogliai (Orgosolo) durante il quale una spedizione da lui organizzata (per quanto non comandata, visto che allora era un "semplice" brigadiere), composta da carabinieri e soldati di fanteria circondò il covo di una pericolosissima banda e la sgominò dopo un intenso conflitto a fuoco. Leggendo le ricostruzioni ci si rende subito conto che tutti gli attori del dramma avevano un'ottima mira e che non ci fu quartiere. Al primo colpo sparato dal bandito di guardia, Cau resta con la giubba perforata e il bandito viene colpito dal colpo del carabiniere. Sul terreno resteranno morti e feriti. Un bandito riuscirà, ferito, a scappare, per morire di lì a poco in altro conflitto a fuoco. Il covo, considerato inaccessibile, era stato individuato da Lussorio Cau che, travestito da bandito, era riuscito in precedenza a infiltrarsi nella banda. Ma non vi racconteremo il libro: gli interessati potranno, come ho fatto io, cercare di procacciarsene una copia e reperire del materiale su Internet. Ci soffermeremo però su di un altro episodio a nostro avviso significativo che lo vide protagonista, durante la Grande Guerra al fronte quando, ormai ufficiale, comandava un plotone di carabinieri addetti a vari compiti, fra i quali c'era anche la repressione dello spionaggio. In tale veste scoprì e smantellò nel Friuli una rete spionistica piuttosto numerosa che faceva riferimento ad un parroco. C'è da dire che episodi di questo genere sono stati tutt'altro che rari. In Veneto se ne contano parecchi. La cosa è comprensibile se si tiene presente che fino al 1866 la zona era territorio imperiale ultracattolico asburgico. Leggendo "La battaglia dei generali" di Gaspari (qui recensito sia dal col. Mauro Scorzato che dal sottoscritto) ci si imbatte in relazioni di ufficiali che raccontano di civili che durante lo sfondamento di Caporetto indirizzavano o guidavano le truppe d'assalto austro-tedesche. D'altra parte se la Chiesa era filo-austriaca, i socialisti trentini erano filioitaliani e fornivano informazioni al nostro spionaggio. Di tutto questo il col. Michele Di Martino (ora in pensione) non parla, limitandosi a citare sobriamente l'episodio che vide protagonista Lussorio Cau. Bel libro questo di Di Martino, di grande apertura mentale e rigorosa metodologia storica; sobrio, forse anche troppo stringato in certi passaggi -tipico questo dei militari- che avremmo voluto maggiormente descritti. Una domanda sorge spontanea: come mai questo libro non è stato ristampato da nessuno per il bicentenario dell'Arma, che pure produce una quantità di testi non tutti sempre del valore documentario di questo? Lo stesso Di Martino si chiedeva al momento di pubblicare il suo libro il perché del relativo silenzio su Lussorio Cau. La ragione assai probabilmente può essere la stessa presa in considerazione da Di Martino: sulla figura di Cau pesa ancora la sua partecipazione all'infame Tribunale Speciale fascista. 
Michele di Martino si sforza appassionatamente di dimostrare in questo suo libro come non solo l'ormai già colonnello dei Reali Carabinieri a riposo fosse tutt'altro che entuasiasta dell'incarico piovutogli addosso di giudice di questo triste Tribunale -proprio quando pensava di godersi, ormai avanti negli anni, un meritato riposo nella casetta di campagna che aveva acquistato in Sicilia- ma anche il fatto che abbia tentato di sottrarsi all'incarico senza riuscirci. La sua domanda in tal senso fu infatti respinta dal presidente di questo organo, un altro sardo, il generale Carlo Sanna, meglio conosciuto in Sardegna come "babbu mannu". Il quale peraltro, quando si troverà lui in un personale conflitto di coscienza, non mancherà di dare forfait. Questa partecipazione costerà molto cara a Lussorio Cau perché a partire dalle epurazioni antifasciste del luglio 1944 e sino all'amnistia di Togliatti del giugno 1946, si vedrà limitato nella libertà (sorvegliato, ironia della sorte, proprio dai carabinieri) e privato persino della pensione. Con l'amnistia gli sarà poi possibile tornare alla vita normale. A differenza di tanti fascisti o simpatizzanti a vario titolo compromessisi col regime, fa notare Di Martino, Cau continuò a godere della stima generale e anche, trovandosi in ristrettezze economiche, della solidarietà materiale di chi gli stava intorno. Finalmente nel 1949 , dopo non poche tribolazioni, vista la burocrazia e i suoi tempi (di allora, s'intende!), gli sarà possibile riavere pensione e arretrati. Ciò fu possibile grazie all'interessamento personale del segretario personale del Ministro della Difesa , Bernardino (Dino) Roberto, a suo tempo condannato proprio dal Tribunale di cui era membro giudicante Lussorio Cau a dieci anni di reclusione in quanto membro di Giustizia e Libertà. Roberto comunicherà personalmente questo dettaglio alla moglie di Cau per iscritto. Di Martino lamenta nel suo libro uscito nel 2009 (e penso già nell'edizione del 2006) che non si sia tenuto nel debito conto del fatto che per il coraggioso e sagace carabiniere di Borore disobbedire a un ordine, per quanto sgradito, non rientrava proprio nell' orizzonte mentale. In quegli anni i carabinieri, fedeli al re, dovevano esserlo anche al suo capo del governo e Duce e al col. Lussorio Cau, già nominato in precedenza per giunta Console della Milizia fascista -nonostante avesse superato i limiti di età e non potesse risiedere a Roma- non passò neanche per la testa l'idea di disobbedire e rifiutare l'incarico in maniera netta. L'appassionata difesa di Di Martino non lascia certamente indifferenti ma (senza bisogno di citare il comportamento tenuto da Socrate in situazione analoga), ci caliamo anche nell'orizzonte mentale degli anti-fascisti di allora e di oggi: Cau, per esempio, aveva fatto parte di quello stesso collegio giudicante che aveva ratificato la condanna a morte già decisa dal Duce (come tutte le altre, del resto) per l'anarchico sardo Michele Schirru (accusato di avere "pensato" a un attentato a Mussolini e poi incastrato dall' OVRA nel momento in cui stava per andarsene da Roma avendo già cambiato idea) e irrogato pesantissime pene detentive, fra gli altri, a un Sandro Pertini. Tuttavia l'amnistia voluta dal governo De Gasperi e firmata da Togliatti avrebbe proprio voluto aprire una nuova fase di riconciliazione. Quindi gli uomini di allora, quelli che erano stati perseguitati dalla dittatura, chiusero anche quella vicenda. Sarà però la guerra fredda a irrigidire nuovamente le contrapposizioni delle quali vediamo ancora oggi dei portati inerziali, a volte salutari a volte no. Per quanto ci riguarda, nel nostro piccolo, pensiamo che, comunque, il libro di Di Martino (il quale mi dicono si è ormai congedato con il grado di generale dei CC e vive proprio in Sardegna) andrebbe ristampato, magari anche in un' edizione ampliata. Ancora una volta ci piace fare riferimento a Herder: "... nulla nela storia è semplice mezzo; nulla vi è in essa che vada valutato soltanto per ciò a cui serve e non per ciò che è" (Cassirer). In altri termini, l'esperienza di quell'ignobile Tribunale non conclude (neanche cronologicamente) e non "invera"; non ci pare affatto che dia significato a tutta la vita di Cau.





SUI PRIGIONIERI AUSTRO-UNGARICI ALL' ASINARA DURANTE LA GRANDE GUERRA (1915-18)


di Ettore Martinez e Mauro Scorzato



Questo libretto, a cura di E. Ughi e S. Rubino (per il quale si ringrazia Eleuterio Demontis) è uscito a Stintino (SS) nel 2015 in occasione del convegno "Commemorazioni di pace: i profughi e i prigionieri sull'isola dell' Asinara", nel centenario della Grande guerra. Soprattutto, ma non solo, si tratta di una ricerca a carattere bio-medico. Forse non tutti sanno che nell'autunno-inverno del 1915 l'esercito serbo in ritirata si portò dietro qualcosa come 40.000/50.000 prigionieri dell'esercito austro-ungarico catturati in precedenza. Se li portò dietro attraverso Montenegro e Albania in bruttissime condizioni igienico-sanitarie ed alimentari attraverso una marcia ("della morte") verso l'imbarco di Valona.
Andando anche oltre il contenuto e l'intenzione di questo interessante lavoro, ricco di utilissime indicazioni bibliografiche e fotografie, portiamo ora la nostra attenzione su come viene da tempo rappresentata in termini contrastanti la prigionia dei soldati austro-ungarici di varie nazionalità (c'erano fra di essi anche degli italiani trentini, oltre ai cechi e agli slovacchi). Se, per esempio, andiamo a leggere questo articolo
avremo modo di vedere il comportamento degli italiani descritto in chiave fortemente negativa quali bastonatori e inumani custodi . D'altro canto si osserva però che "la rappresentazione fatta dall' Agnelli ( il cui nome comunque non figura tra i militari assegnati all' Asinara) non concorda neppure con la versione di un soldato ceco (boemo al tempo) certo Sramek di cui ho fatto, nel corso di una mia conferenza, un parallelo narrativo tra lui e il Ferrari (il generale che comandava il campo dell'Asinara): le due versioni, "mutatis mutandis" di fatto concordano. Nessuno sano di mente al tempo ha mai pensato di mandare un quantitativo così enorme di prigionieri infetti in un luogo dove avrebbero potuto contagiare la popolazione locale. Facciamo piuttosto un paragone su cosa potrebbe accadere oggi se si ripresentasse una necessità del genere. Nessuno sarebbe in grado di fronteggiare una affluenza di quel genere. Vedasi l'afflusso di profughi a Lampedusa. Inoltre se si considera la mortalità si deve escludere la fame: lo stesso Sramek ancorché lamenti la carenza d'acqua, afferma che il cibo era addirittura sovrabbondante ( la stessa razione del soldato italiano come da convenzione di Ginevra) peraltro minuziosamente rendicontato nella relazione del comandante Ferrari" (Mauro Scorzato).
Sull'argomento, oltre al già citato col. Scorzato, già direttore del museo storico della Brigata Sassari, hanno fatto importanti lavori diversi studiosi, fra i quali il dott. Alberto Monteverde sui quali torneremo presto.

mercoledì 21 novembre 2018

IL CLERO IN VENETO DURANTE LA GRANDE GUERRA

Lo spionaggio clericale in Veneto durante la Grande Guerra

di Mauro Scorzato




Nella biografia del Mar. Lussorio Cau redatta dal Col. De Martino si riporta l’evento in cui Cau - nelle sue indagini per la sicurezza delle retrovie del fronte -cattura una spia austriaca “travestito da prete” in quel di Ruda (piccolo comune del Goriziano). Può sembrare un piccolo evento insignificante nel bilancio della Guerra, ma il ruolo giocato, specialmente nel Triveneto, dai religiosi a favore degli imperi centrali è tutt’altro che insignificante e certamente non ridotto a quell’unico evento. 

Il ruolo centrale della figura del sacerdote, per la formazione dell’opinione pubblica in una area piagata dall’analfabetismo e dalla mancanza di cultura in generale, era già stato compreso dalle forze austriache all’indomani delle rivolte del 1848: il passaggio dei rivoltosi tra il Veneto (possedimento austriaco) e il Regno del Papa (e viceversa), seguendo le antiche vie del contrabbando attraverso il Polesine e il delta del Po, aveva complicato non poco la vita delle guarnigioni austro-ungariche. E visto che i rivoltosi erano tanto anti-austriaci che anti-papalini, le truppe di occupazione avevano trovato le espressioni clericali del luogo come naturali interlocutori nella repressione. 

I risultati non si fecero attendere: dal 1850 al 1853 la Commissione militare di Este (PD), una specie di corte marziale di occupazione, catturò 1150 (circa) ribelli, ne mise a morte 450, ne mandò ai lavori forzati circa 500 (non è noto quanti tornarono) e ne assolse a vario titolo (non ultimo l’avvenuto decesso) circa 200. Il connubio marciò con passo sicuro fino al 1866 quando il Veneto passò sotto i Savoia, nel regno d’Italia: per far intendere il piacere con cui il fatto venne ricevuto dal clero di allora, basti il trascritto di un parroco di Monselice (PD) nel registro delle nascite: ”….in questo giorno infausto, in cui entrò in Monselice il Re massone Vittorio Emanuele II, ho battezzato…”. 

A quel tempo il Veneto non era la “locomotiva” di oggi: ancora nel 1871 l’analfabetismo nella provincia di Padova era del 73,2% per i maschi e dell’88,4% per le femmine; per tutto l’800 le classi sono numerosissime (70/80 alunni con profitti disastrosi); nel 1901 il 62% degli abitanti del Comune di Padova sono analfabeti e su una popolazione provinciale di 459.930 abitanti ci sono 674 insegnanti. In una situazione del genere, convincere che l’annessione del Veneto fosse una congiura borghese-massonica fu un gioco e il deprezzamento dei generi agricoli dell’ ‘82 e ‘83, che mise allo stremo le campagne riducendo alla fame i contadini, fu data come conferma. 

Il Vescovo di Padova, Mons. Callegari[1], in una epistola indirizzata al clero e al popolo della diocesi, scriveva nel 1893 che l’annessione al Regno d’Italia coincideva con “l’irrompere del vizio di tutte quelle false massime onde ai dì nostri si mollano le basi della santissima religione e della civile società “. 

Verso la fine del secolo, l’arrivo delle industrie non fece cambiare la situazione; le industrie aperte da imprenditori cattolici erano legate al clero locale. Cita il Marangon nel suo “MOVIMENTO CATTOLICO PADOVANO”: ”nella fabbrica di busti per signora di Este (PD) si usavano le suore per la sorveglianza e la catechizzazione delle operaie. Era obbligatoria la preghiera e le funzioni religiose. Nel 1910 furono resi addirittura obbligatori gli esercizi spirituali in clausura nel locale collegio del Sacro Cuore.” 

A Mons. Callegari succederà il 2 maggio 1907 Mons. Pellizzo, proveniente dalla Slovenia (allora Impero A.U.), subito denominato monsignor “Ossoduro”. Il 6 febbraio 1911, il prefetto del tempo descrive l’operato del Vescovo al Ministero dell’Interno nei seguenti termini: ”sento il dovere di informare la prefata eccellenza vostra che l’organizzazione ideata e attuata da Mons. Pellizzo va sempre più estendendosi e rafforzandosi come avevo preveduto e va perciò diventando sempre più pericoloso per l’ordine pubblico di questa Provincia. Rigido, tenace, astuto, detto prelato non si fa scrupoli di ricorrere anche a mezzi illeciti e di abusare del suo spirituale ministero per farsi strada e raggiungere il fine propostosi che è quello di impadronirsi delle amministrazioni locali, di imporsi al governo, di sovrapporsi alle autorità civili, di creare quasi - insomma - in questa provincia uno stato nuovo che si muova e agisca a suo piacimento”[2].

Con queste basi, si inizia il 1^ Conflitto Mondiale che per ovvii motivi vede i cattolici veneti, insieme ai socialisti e ai liberali giolittiani, dal lato neutralista dello schieramento. Ma già allo scoppio del conflitto nel 1915, Mons. Pellizzo “ebbe più volte a richiamare i sacerdoti austriacanti della sua Diocesi che facevano servire i loro sentimenti politici il ministero Santo ella parola del Signore”[3]. 

Se questi richiami sorgessero dal cuore del prelato o da un confronto con Cadorna, pur convinto cattolico, ma altrettanto osso duro, non è mai stato documentato. In ogni caso il fatto più clamoroso che ebbe risonanza sui giornali nazionali fu l’arresto nel 1915 di Don Andrea Grandotto, parroco di Cesuna, Don Leonildo Berto, parroco di Canove, Don Pietro Vezzaro, vicario parrocchiale di Camporovere, tutte località sull’altipiano di Asiago, sospettati di aver fatto segnalazioni luminose agli Austriaci. 

I tre sacerdoti furono imprigionati nelle carceri di Verona. Don Grandotto, probabilmente su invito del Mons. Pellizzo, scrisse un diario della sua prigionia (Diario di un prete internato 1915-16 pubblicato dall’istituto di cultura cimbra di Roana); nonostante una sentenza di assoluzione, il parroco fu internato nella lontana località pugliese di Lucera in quanto “prete austriacante” e poté rivedere Cesuna solo nel dicembre del '18. Nonostante l’annuncio trionfale dell’assoluzione dei tre da parte della “Difesa del Popolo”, il 15 agosto 1915, la lettura di poche pagine del Diario lascia ben pochi dubbi su quale fossero le idee del parroco: la domanda sul perché nella zona degli Altipiani venissero reclutati i reparti alpini per difendere i confini d’Italia è già una domanda illuminante sulle prospettive del Sacerdote. 

Ma nel 1917, anno che fu tragico per i destini del Paese in guerra e quindi maggiore fu l’attenzione ai comportamenti e discorsi dei sacerdoti sia all’interno che all’esterno degli edifici di culto, si comprese che lo sforzo della propaganda austriaca sarebbe stato quello di far capitolare l’avversario senza ulteriori sforzi. 

La diocesi di Treviso, provincia spaccata a metà dall’avanzata austrotedesca sul Piave, quindi zona di guerra esattamente come lo fu la Venezia Giulia all’inizio del conflitto, nonché zona in cui il Papa Pio X aveva esercitato la direzione del seminario locale, è particolarmente esplicativa. 

Il Vescovo Giovanni Bonaventura Longhin 

Mons. Giovanni Bonaventura Longhin, vescovo di Treviso dal 1904, mantiene buone relazioni con le autorità sia civili che militari (dal 1914 la città era sede del Comando Supremo); per tutta la durata del conflitto, gira la diocesi costantemente, utilizzando anche automezzi militari; strenuo protettore dei suoi parroci durante il conflitto, si adopera per mediare fra le esigenze di questi ultimi e le autorità. I risultati di questo intessere profondi rapporti si concretizzano con la ricezione di una missiva anonima che dice: ”Per mie segrete intelligenze, ho saputo che si mira a V. E. coll’accusa che durante la ritirata, lei avrebbe già provveduto a fornirsi di un interprete austriaco per poter in questo modo ricevere con pompa ed omaggio il nemico. Si fa dunque credito su questo fatto asserendo che tutta la sua diocesi è fattrice del nemico. Sia cauto e provveda al riguardo onde smascherare gli accusatori di questa calunnia che potrebbe comportare conseguenze tristi e gravi”[4]. L’estensore si raccomandava di distruggere la missiva subito dopo l’uso. 

La vicenda in questione ebbe inizio il 9 novembre 1917, quando il parroco di San Lazzaro – uno dei quartieri di Treviso – presentò al vescovo un suo parrocchiano, conoscitore della lingua tedesca, perché gli fungesse da interprete in caso di bisogno (i giorni sono quelli immediatamente successivi alla disfatta di Caporetto e all’invasione austro-ungarica di parte del Veneto, N.d.A.). Tuttavia, qualche giorno dopo, questa persona venne internata, probabilmente perché sospettata di essere in contatto col nemico, data la conoscenza del tedesco, come riporta il prelato stesso al vescovo di Vicenza. In ogni caso il prelato si attivò immediatamente per accertarsi che la denuncia non avesse seguito e così fu: l’esito era così certo che non ci si premurò neppure di distruggere la missiva. 

Così egli stesso descrive la sua vicenda in una missiva al Vescovo di Vicenza il 17 dicembre 1917[5] :”Sa, Eccellenza, che cosa mi successe in questi ultimi giorni? Sono stato registrato nientemeno che nel libro nero del tribunale di guerra. Il delitto? enorme addirittura. Nei giorni del fuggi fuggi, rimasto solo colla prospettiva di avere in casa i tedeschi, un mio parroco mi presentò ingenuamente un suo ottimo parrocchiano, conoscitore del tedesco, perché eventualmente potesse farmi da interprete. Disgrazia volle che il poveraccio fosse internato, e subito si cercò di rannodare insieme questo internamento col presunto ufficio di interprete vescovile … Ce n’era d’avanzo per mandarmi poco meno che alla fucilazione!” Ma nello stesso mese si rivolgeva al Santo Padre vergando queste parole;” La massoneria non ci perdonerà mai, o Padre Santo, l’ora delle benemerenze acquisite di fronte al popolo”. Per massoneria intendeva la classe politica liberale che aveva spodestato il potere temporale dei papi e ridimensionato quello del clero; per le benemerenze, il fatto che il clero trevisano non fosse fuggito dalle zone occupate ma rimasto sul posto ad “mantenere la cura delle anime”, anzi visto che le autorità civili erano fuggite al seguito delle truppe italiane, il clero dovette “per necessità” farsi carico anche delle incombenze civili. Insomma una cambiale da presentare all’incasso al termine della guerra a chiunque avesse vinto, anche nel deprecabile caso di vittoria dei “massoni” le cui autorità civili avevano ben donde di cui fuggire oltre il Piave. Le opportunità offerte dal momento storico non erano certamente sfuggite ai lungimiranti prelati. 

In ogni caso, nonostante le forti aderenze presso gli Alti Comandi e la magistratura, altri parroci del non furono altrettanto fortunati. In particolare: 
- Don Luigi Panizzolo, parroco di Volpago del Montello, venne accusato di due reati: il primo riguardava la divulgazione di false notizie relative a delle possibili proposte di pace che la Germania avrebbe avanzato all’Inghilterra, alla Francia e all’Italia; il secondo reato – di disfattismo – era invece considerato tale in forza del decreto Sacchi[6]. di fatto il Panizzolo avrebbe esortato i lavoratori “requisiti “ (ovverosia con status militare) a non lavorare la domenica, in quanto giorno del Signore”. A sua difesa il parroco si limitò a dire di aver esortato i lavoratori ad attendere alle funzioni domenicali per poi tornare al lavoro: il processo a suo carico ebbe infine luogo l’8 marzo 1918 e terminò con l’assoluzione dell’imputato “perché rimase esclusa la sussistenza dei fatti come specificati in citazione”. La “Difesa del Popolo” il 17 Marzo 1918 così commenta:” Come mai un galantuomo, un cittadino onorato, e di precedenti patriottici, che fu assolto per insussistenza dei fatti attribuitigli, per l’accusa di un brigadiere qualunque, potè [sic] essere trascinato per mesi di prigione in prigione, da Cologna Veneta a Treviso, tra angosce [sic] morali e materiali sottostando ai terribili bombardamenti aerei col pericolo della vita? Per quali precedenti, per quali sospetti, in base a quali indizi si poté [sic] dar colore all’accusa? In ogni caso, al termine di questa vicenda, però, don Panizzolo venne accusato nuovamente, nell’estate dello stesso anno dall’autorità municipale di Volpago di essere un “sobillatore della popolazione contro di essa». E, in una lettera inviata al vescovo di Treviso, il sacerdote si difende: «È falso, falsissimo, Eccellenza, che io abbia sobillato i miei parrocchiani contro il sindaco e il medico di Volpago fuggiti a Villanova d’Istrana”. 
- Don Adamo Volpato, parroco di Vallio, nella relazione sul periodo bellico inviata alla curia di Treviso e compilata dallo stesso don Adamo Volpato si legge che «il parroco fu falsamente accusato di disfattismo, incarcerato per 20 giorni e dopo due giorni di processo civile, liberato». Il processo non si concluse mai, ma le due testimoni a carico affermarono di aver accusato il parroco sotto “minaccia di essere violentate dai Carabinieri” mentre il Pubblico Ministero chiese l’imputazione per falsa testimonianza di 15 testimoni a discarico. Come descrive esso stesso il suo processo: “Era troppo chiaro che si voleva salvare ad ogni costo i carabinieri, che sembra debbano avere sempre dalla loro parte la presunzione indiscutibile di essere veritieri, anche se vi sono prove luminose che attestano il contrario”. Il perché i Reali Carabinieri covassero tanto astio nei confronti del reverendo non è comunque dato a sapere. 
- Don Antonio Passazi, parroco di Casier, accusato di disfattismo e generare confusione, assolto in sede dibattimentale; 
- Don Francesco Kruszynskj, parroco di Ballò, di origine polacca, arrestato per spionaggio, ma assolto in fase dibattimentale; 
- Don Callisto Brumatti, parroco di Cendon, venne arrestato e incarcerato con l’accusa di aver pronunciato, nel corso di una delle sue prediche, l’apologia dei soldati italiani che deposero le armi. Scarcerato e deportato a Benevento. 
- Don Carlo Noè, vicario parrocchiale di S.Elena di Silea (TV). In questo caso la imputazione non fu mai resa nota (come spesso accadeva per le imputazioni di spionaggio). Quello che rende questo caso peculiare è il fatto che un altro parroco del Trevigiano, Don Romano Citton informò il Vescovo Longhin che uno dei suoi collaboratori sarebbe stato arrestato e sempre secondo “i miei (del Citton) informatori” sarebbe stato deportato: tutto avvenne come descritto e nel rapporto al Vescovo appare anche una descrizione dell’ufficiale dei Reali Carabinieri che aveva condotto l’inchiesta, oltre che la versione dei testimoni a carico. - - Don Attilio Andreatti, arciprete di Paese, deportato a Firenze per Austriacantismo nonostante l’intervento degli On. Pietro Bertolini e On. Giovanni Indri, sottosegretario alle Finanze, sollecitati da Mons. Longhin. Solo con l’intervento di Diaz potè ritornare a Treviso. - Mons. Luigi Bertolanza, arciprete di Castelfranco-San Liberale, internato a Cosenza per intervento del Comando Francese di stanza a Castelfranco, provvedimento attuato nonostante l’interessamento del già citato On. Indri. 

Entrare nei dettagli dei processi esce dallo scopo di questo articolo ma gli atti ricordano molto lo schema dei processi di mafia degli anni ’50/60: testimoni a carico che ritrattano in fase dibattimentale, affermando di essere stati imbeccati dai Carabinieri, testimoni a discarico che proliferano improvvisamente e stampa cattolica (la Difesa del Popolo e L’Avvenire d’Italia) che inneggia, nel momento dell’assoluzione, al trionfo sui complotti anticlericali e massoni. 

Giusto per citare altri eventi accaduti nel Triveneto, ci furono una quindicina di casi simili nella provincia di Padova, dove l’arciprete di Este (PD) Don Antonio della Valle venne arrestato per disfattismo, ma assolto dopo la testimonianza del Vescovo (il famigerato Mons. Pellizzo), e il caso eclatante di Portogruaro (VE) dove il Vescovo Mons. Isola, fu picchiato e cacciato a furor di popolo dalla diocesi. Il presule fu soccorso da monsignor Celso Costantini, che aveva varcato il Piave il giorno precedente assieme al grosso degli abitanti di Portogruaro (VE) (si ricorda che 4000 dei 5000 abitanti fuggì oltre il Piave), e fu nascosto in una stalla. L’episodio è narrato dal soccorritore, nel libro “Foglie secche”, con limpida obiettività. «Monsignor Isola era nato quando il Veneto era sotto il dominio austriaco; in lui, come in molti altri preti veneti, era rimasto – se non il rimpianto –, ma certo una rispettosa memoria dell’Austria, che proteggeva la religione, e trattava con considerazione i preti. La rivoluzione italiana era stata inquinata da odio anticlericale. Nella nuova Italia la massoneria esercitava un grande odioso potere. (…) Monsignor Isola, dopo la rotta di Caporetto, già vecchio, pensò che gli austriaci sarebbero rimasti nei nostri paesi, instaurando l’antico dominio. Pensò pure che conveniva stabilire buoni rapporti coi nuovi padroni per poter meglio proteggere il popolo. Checché sia, il fatto sta che per il Natale del 1917, mentre Portogruaro era isolata e come in lutto per la sciagura della patria e per l’onta del prepotente invasore, egli celebrò il pontificale in duomo ed ebbe la infelice idea di dire che quel pontificale era più solenne del solito “per la presenza del valoroso esercito austriaco”. Per usar rispetto all’esercito (Austro-Ungarico N.d.R), non pensò che veniva a mancar di rispetto al dolore dei vecchi, delle madri e delle mogli che avevano i figli e i mariti oltre il Piave». «La folla che saccheggiò il vescovado e oltraggiò il Vescovo – scrisse monsignor Costantini – era costituita in gran parte da profughi del Piave». Di tale episodio si dà una versione, totalmente differente, anche da parte clericale, definendola “atto di squadrismo”, rifiutandosi di capire che l’anticlericalismo non era solo frutto di gruppi organizzati o di esponenti dei ceti dirigenti, ma anche di reazioni popolari al malcontento e l’insoddisfazione per le condizioni della Chiesa uscita dal tormentato pontificato di Pio X e assolutamente priva di sensibilità nei confronti di chi avesse sacrificato cari e averi alla nuova idea di Patria che stava sorgendo tutto intorno a loro.[7] 

Dopo la guerra questi stessi sacerdoti divennero comunque validi alleati per sconfiggere l’onda socialista che si infranse nel Veneto; molti processi si estinsero di morte “naturale”, prescritti o amnistiati, dal momento che “massoni” e clero dovevano fronteggiare un nuovo nemico che sembrava essere molto più agguerrito. I Patti Lateranensi posero fine all’attivismo del clero triveneto, ma il progetto di creare “ uno stato confessionale nello Stato laico” non fu mai definitivamente abbandonato. In ogni caso, ci si sente di dire che se il regno temporale del Papa finì il 20 settembre1870 sotto le scarpe dei bersaglieri di Cadorna, il progetto di stato confessionale dei Vescovi veneti probabilmente subì una grave battuta d’arresto sotto gli zoccoli della cavalleria di Diaz, all’inseguimento degli Austriaci nelle valli trentine e friulane. 

[1] Il vescovo Giuseppe Callegari resse la diocesi di Padova dal 1892 al 1906: nel 1880 vescovo di Treviso nomina direttore del seminario Giuseppe Sarto (futuro PIO X) a cui rimarrà legato da profonda amicizia. 
[2] G. Romanato, Luigi Pellizzo a Padova (1907-1923) in “Le scelte pastorali ...” p.93. [3]Gioacchino Volpe Il popolo italiano nella grande guerra (15-16) p. 264 
[4] Lettera anonima, Archivio Storico Diocesano di Treviso (ASDTv), Opera di Ricostruzione delle Chiese del Lungo Piave, b. 2, f. 1. Estratta dalla tesi di laurea “IL nemico interno a Treviso durante la Grande Guerra” Università Cà Foscari –Venezia Relatore Prof. Bruna Biachi Laureanda Tatiana Calmasini 
[5] Antonio Scottà (a cura di), I vescovi veneti e la Santa Sede nella guerra 1915-1918, 
[6] L’art.1 del decreto Sacchi stabiliva che «chiunque con qualsiasi mezzo commette o istiga a commettere un fatto che può deprimere lo spirito pubblico o altrimenti diminuire la resistenza del paese o recar pregiudizio agli interessi connessi con la guerra e con la situazione interna od internazionale dello Stato, quando tal fatto non costituisca altro reato previsto e represso dalla legge, sarà punito con la reclusione sino a cinque anni e con la multa sino a 5.000 lire. Nei casi di maggiore gravità, la reclusione potrà estendersi fino a dieci anni e la multa sino a 10.000 lire». 
[7] L. Bruti Liberati, Il clero italiano nella Grande Guerra, Editori Riuniti, Roma 1982, p.145 e pp. 169-189 sull’offensiva contro i parroci nelle “terre redente”.

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