mercoledì 21 novembre 2018

IL CLERO IN VENETO DURANTE LA GRANDE GUERRA

Lo spionaggio clericale in Veneto durante la Grande Guerra

di Mauro Scorzato




Nella biografia del Mar. Lussorio Cau redatta dal Col. De Martino si riporta l’evento in cui Cau - nelle sue indagini per la sicurezza delle retrovie del fronte -cattura una spia austriaca “travestito da prete” in quel di Ruda (piccolo comune del Goriziano). Può sembrare un piccolo evento insignificante nel bilancio della Guerra, ma il ruolo giocato, specialmente nel Triveneto, dai religiosi a favore degli imperi centrali è tutt’altro che insignificante e certamente non ridotto a quell’unico evento. 

Il ruolo centrale della figura del sacerdote, per la formazione dell’opinione pubblica in una area piagata dall’analfabetismo e dalla mancanza di cultura in generale, era già stato compreso dalle forze austriache all’indomani delle rivolte del 1848: il passaggio dei rivoltosi tra il Veneto (possedimento austriaco) e il Regno del Papa (e viceversa), seguendo le antiche vie del contrabbando attraverso il Polesine e il delta del Po, aveva complicato non poco la vita delle guarnigioni austro-ungariche. E visto che i rivoltosi erano tanto anti-austriaci che anti-papalini, le truppe di occupazione avevano trovato le espressioni clericali del luogo come naturali interlocutori nella repressione. 

I risultati non si fecero attendere: dal 1850 al 1853 la Commissione militare di Este (PD), una specie di corte marziale di occupazione, catturò 1150 (circa) ribelli, ne mise a morte 450, ne mandò ai lavori forzati circa 500 (non è noto quanti tornarono) e ne assolse a vario titolo (non ultimo l’avvenuto decesso) circa 200. Il connubio marciò con passo sicuro fino al 1866 quando il Veneto passò sotto i Savoia, nel regno d’Italia: per far intendere il piacere con cui il fatto venne ricevuto dal clero di allora, basti il trascritto di un parroco di Monselice (PD) nel registro delle nascite: ”….in questo giorno infausto, in cui entrò in Monselice il Re massone Vittorio Emanuele II, ho battezzato…”. 

A quel tempo il Veneto non era la “locomotiva” di oggi: ancora nel 1871 l’analfabetismo nella provincia di Padova era del 73,2% per i maschi e dell’88,4% per le femmine; per tutto l’800 le classi sono numerosissime (70/80 alunni con profitti disastrosi); nel 1901 il 62% degli abitanti del Comune di Padova sono analfabeti e su una popolazione provinciale di 459.930 abitanti ci sono 674 insegnanti. In una situazione del genere, convincere che l’annessione del Veneto fosse una congiura borghese-massonica fu un gioco e il deprezzamento dei generi agricoli dell’ ‘82 e ‘83, che mise allo stremo le campagne riducendo alla fame i contadini, fu data come conferma. 

Il Vescovo di Padova, Mons. Callegari[1], in una epistola indirizzata al clero e al popolo della diocesi, scriveva nel 1893 che l’annessione al Regno d’Italia coincideva con “l’irrompere del vizio di tutte quelle false massime onde ai dì nostri si mollano le basi della santissima religione e della civile società “. 

Verso la fine del secolo, l’arrivo delle industrie non fece cambiare la situazione; le industrie aperte da imprenditori cattolici erano legate al clero locale. Cita il Marangon nel suo “MOVIMENTO CATTOLICO PADOVANO”: ”nella fabbrica di busti per signora di Este (PD) si usavano le suore per la sorveglianza e la catechizzazione delle operaie. Era obbligatoria la preghiera e le funzioni religiose. Nel 1910 furono resi addirittura obbligatori gli esercizi spirituali in clausura nel locale collegio del Sacro Cuore.” 

A Mons. Callegari succederà il 2 maggio 1907 Mons. Pellizzo, proveniente dalla Slovenia (allora Impero A.U.), subito denominato monsignor “Ossoduro”. Il 6 febbraio 1911, il prefetto del tempo descrive l’operato del Vescovo al Ministero dell’Interno nei seguenti termini: ”sento il dovere di informare la prefata eccellenza vostra che l’organizzazione ideata e attuata da Mons. Pellizzo va sempre più estendendosi e rafforzandosi come avevo preveduto e va perciò diventando sempre più pericoloso per l’ordine pubblico di questa Provincia. Rigido, tenace, astuto, detto prelato non si fa scrupoli di ricorrere anche a mezzi illeciti e di abusare del suo spirituale ministero per farsi strada e raggiungere il fine propostosi che è quello di impadronirsi delle amministrazioni locali, di imporsi al governo, di sovrapporsi alle autorità civili, di creare quasi - insomma - in questa provincia uno stato nuovo che si muova e agisca a suo piacimento”[2].

Con queste basi, si inizia il 1^ Conflitto Mondiale che per ovvii motivi vede i cattolici veneti, insieme ai socialisti e ai liberali giolittiani, dal lato neutralista dello schieramento. Ma già allo scoppio del conflitto nel 1915, Mons. Pellizzo “ebbe più volte a richiamare i sacerdoti austriacanti della sua Diocesi che facevano servire i loro sentimenti politici il ministero Santo ella parola del Signore”[3]. 

Se questi richiami sorgessero dal cuore del prelato o da un confronto con Cadorna, pur convinto cattolico, ma altrettanto osso duro, non è mai stato documentato. In ogni caso il fatto più clamoroso che ebbe risonanza sui giornali nazionali fu l’arresto nel 1915 di Don Andrea Grandotto, parroco di Cesuna, Don Leonildo Berto, parroco di Canove, Don Pietro Vezzaro, vicario parrocchiale di Camporovere, tutte località sull’altipiano di Asiago, sospettati di aver fatto segnalazioni luminose agli Austriaci. 

I tre sacerdoti furono imprigionati nelle carceri di Verona. Don Grandotto, probabilmente su invito del Mons. Pellizzo, scrisse un diario della sua prigionia (Diario di un prete internato 1915-16 pubblicato dall’istituto di cultura cimbra di Roana); nonostante una sentenza di assoluzione, il parroco fu internato nella lontana località pugliese di Lucera in quanto “prete austriacante” e poté rivedere Cesuna solo nel dicembre del '18. Nonostante l’annuncio trionfale dell’assoluzione dei tre da parte della “Difesa del Popolo”, il 15 agosto 1915, la lettura di poche pagine del Diario lascia ben pochi dubbi su quale fossero le idee del parroco: la domanda sul perché nella zona degli Altipiani venissero reclutati i reparti alpini per difendere i confini d’Italia è già una domanda illuminante sulle prospettive del Sacerdote. 

Ma nel 1917, anno che fu tragico per i destini del Paese in guerra e quindi maggiore fu l’attenzione ai comportamenti e discorsi dei sacerdoti sia all’interno che all’esterno degli edifici di culto, si comprese che lo sforzo della propaganda austriaca sarebbe stato quello di far capitolare l’avversario senza ulteriori sforzi. 

La diocesi di Treviso, provincia spaccata a metà dall’avanzata austrotedesca sul Piave, quindi zona di guerra esattamente come lo fu la Venezia Giulia all’inizio del conflitto, nonché zona in cui il Papa Pio X aveva esercitato la direzione del seminario locale, è particolarmente esplicativa. 

Il Vescovo Giovanni Bonaventura Longhin 

Mons. Giovanni Bonaventura Longhin, vescovo di Treviso dal 1904, mantiene buone relazioni con le autorità sia civili che militari (dal 1914 la città era sede del Comando Supremo); per tutta la durata del conflitto, gira la diocesi costantemente, utilizzando anche automezzi militari; strenuo protettore dei suoi parroci durante il conflitto, si adopera per mediare fra le esigenze di questi ultimi e le autorità. I risultati di questo intessere profondi rapporti si concretizzano con la ricezione di una missiva anonima che dice: ”Per mie segrete intelligenze, ho saputo che si mira a V. E. coll’accusa che durante la ritirata, lei avrebbe già provveduto a fornirsi di un interprete austriaco per poter in questo modo ricevere con pompa ed omaggio il nemico. Si fa dunque credito su questo fatto asserendo che tutta la sua diocesi è fattrice del nemico. Sia cauto e provveda al riguardo onde smascherare gli accusatori di questa calunnia che potrebbe comportare conseguenze tristi e gravi”[4]. L’estensore si raccomandava di distruggere la missiva subito dopo l’uso. 

La vicenda in questione ebbe inizio il 9 novembre 1917, quando il parroco di San Lazzaro – uno dei quartieri di Treviso – presentò al vescovo un suo parrocchiano, conoscitore della lingua tedesca, perché gli fungesse da interprete in caso di bisogno (i giorni sono quelli immediatamente successivi alla disfatta di Caporetto e all’invasione austro-ungarica di parte del Veneto, N.d.A.). Tuttavia, qualche giorno dopo, questa persona venne internata, probabilmente perché sospettata di essere in contatto col nemico, data la conoscenza del tedesco, come riporta il prelato stesso al vescovo di Vicenza. In ogni caso il prelato si attivò immediatamente per accertarsi che la denuncia non avesse seguito e così fu: l’esito era così certo che non ci si premurò neppure di distruggere la missiva. 

Così egli stesso descrive la sua vicenda in una missiva al Vescovo di Vicenza il 17 dicembre 1917[5] :”Sa, Eccellenza, che cosa mi successe in questi ultimi giorni? Sono stato registrato nientemeno che nel libro nero del tribunale di guerra. Il delitto? enorme addirittura. Nei giorni del fuggi fuggi, rimasto solo colla prospettiva di avere in casa i tedeschi, un mio parroco mi presentò ingenuamente un suo ottimo parrocchiano, conoscitore del tedesco, perché eventualmente potesse farmi da interprete. Disgrazia volle che il poveraccio fosse internato, e subito si cercò di rannodare insieme questo internamento col presunto ufficio di interprete vescovile … Ce n’era d’avanzo per mandarmi poco meno che alla fucilazione!” Ma nello stesso mese si rivolgeva al Santo Padre vergando queste parole;” La massoneria non ci perdonerà mai, o Padre Santo, l’ora delle benemerenze acquisite di fronte al popolo”. Per massoneria intendeva la classe politica liberale che aveva spodestato il potere temporale dei papi e ridimensionato quello del clero; per le benemerenze, il fatto che il clero trevisano non fosse fuggito dalle zone occupate ma rimasto sul posto ad “mantenere la cura delle anime”, anzi visto che le autorità civili erano fuggite al seguito delle truppe italiane, il clero dovette “per necessità” farsi carico anche delle incombenze civili. Insomma una cambiale da presentare all’incasso al termine della guerra a chiunque avesse vinto, anche nel deprecabile caso di vittoria dei “massoni” le cui autorità civili avevano ben donde di cui fuggire oltre il Piave. Le opportunità offerte dal momento storico non erano certamente sfuggite ai lungimiranti prelati. 

In ogni caso, nonostante le forti aderenze presso gli Alti Comandi e la magistratura, altri parroci del non furono altrettanto fortunati. In particolare: 
- Don Luigi Panizzolo, parroco di Volpago del Montello, venne accusato di due reati: il primo riguardava la divulgazione di false notizie relative a delle possibili proposte di pace che la Germania avrebbe avanzato all’Inghilterra, alla Francia e all’Italia; il secondo reato – di disfattismo – era invece considerato tale in forza del decreto Sacchi[6]. di fatto il Panizzolo avrebbe esortato i lavoratori “requisiti “ (ovverosia con status militare) a non lavorare la domenica, in quanto giorno del Signore”. A sua difesa il parroco si limitò a dire di aver esortato i lavoratori ad attendere alle funzioni domenicali per poi tornare al lavoro: il processo a suo carico ebbe infine luogo l’8 marzo 1918 e terminò con l’assoluzione dell’imputato “perché rimase esclusa la sussistenza dei fatti come specificati in citazione”. La “Difesa del Popolo” il 17 Marzo 1918 così commenta:” Come mai un galantuomo, un cittadino onorato, e di precedenti patriottici, che fu assolto per insussistenza dei fatti attribuitigli, per l’accusa di un brigadiere qualunque, potè [sic] essere trascinato per mesi di prigione in prigione, da Cologna Veneta a Treviso, tra angosce [sic] morali e materiali sottostando ai terribili bombardamenti aerei col pericolo della vita? Per quali precedenti, per quali sospetti, in base a quali indizi si poté [sic] dar colore all’accusa? In ogni caso, al termine di questa vicenda, però, don Panizzolo venne accusato nuovamente, nell’estate dello stesso anno dall’autorità municipale di Volpago di essere un “sobillatore della popolazione contro di essa». E, in una lettera inviata al vescovo di Treviso, il sacerdote si difende: «È falso, falsissimo, Eccellenza, che io abbia sobillato i miei parrocchiani contro il sindaco e il medico di Volpago fuggiti a Villanova d’Istrana”. 
- Don Adamo Volpato, parroco di Vallio, nella relazione sul periodo bellico inviata alla curia di Treviso e compilata dallo stesso don Adamo Volpato si legge che «il parroco fu falsamente accusato di disfattismo, incarcerato per 20 giorni e dopo due giorni di processo civile, liberato». Il processo non si concluse mai, ma le due testimoni a carico affermarono di aver accusato il parroco sotto “minaccia di essere violentate dai Carabinieri” mentre il Pubblico Ministero chiese l’imputazione per falsa testimonianza di 15 testimoni a discarico. Come descrive esso stesso il suo processo: “Era troppo chiaro che si voleva salvare ad ogni costo i carabinieri, che sembra debbano avere sempre dalla loro parte la presunzione indiscutibile di essere veritieri, anche se vi sono prove luminose che attestano il contrario”. Il perché i Reali Carabinieri covassero tanto astio nei confronti del reverendo non è comunque dato a sapere. 
- Don Antonio Passazi, parroco di Casier, accusato di disfattismo e generare confusione, assolto in sede dibattimentale; 
- Don Francesco Kruszynskj, parroco di Ballò, di origine polacca, arrestato per spionaggio, ma assolto in fase dibattimentale; 
- Don Callisto Brumatti, parroco di Cendon, venne arrestato e incarcerato con l’accusa di aver pronunciato, nel corso di una delle sue prediche, l’apologia dei soldati italiani che deposero le armi. Scarcerato e deportato a Benevento. 
- Don Carlo Noè, vicario parrocchiale di S.Elena di Silea (TV). In questo caso la imputazione non fu mai resa nota (come spesso accadeva per le imputazioni di spionaggio). Quello che rende questo caso peculiare è il fatto che un altro parroco del Trevigiano, Don Romano Citton informò il Vescovo Longhin che uno dei suoi collaboratori sarebbe stato arrestato e sempre secondo “i miei (del Citton) informatori” sarebbe stato deportato: tutto avvenne come descritto e nel rapporto al Vescovo appare anche una descrizione dell’ufficiale dei Reali Carabinieri che aveva condotto l’inchiesta, oltre che la versione dei testimoni a carico. - - Don Attilio Andreatti, arciprete di Paese, deportato a Firenze per Austriacantismo nonostante l’intervento degli On. Pietro Bertolini e On. Giovanni Indri, sottosegretario alle Finanze, sollecitati da Mons. Longhin. Solo con l’intervento di Diaz potè ritornare a Treviso. - Mons. Luigi Bertolanza, arciprete di Castelfranco-San Liberale, internato a Cosenza per intervento del Comando Francese di stanza a Castelfranco, provvedimento attuato nonostante l’interessamento del già citato On. Indri. 

Entrare nei dettagli dei processi esce dallo scopo di questo articolo ma gli atti ricordano molto lo schema dei processi di mafia degli anni ’50/60: testimoni a carico che ritrattano in fase dibattimentale, affermando di essere stati imbeccati dai Carabinieri, testimoni a discarico che proliferano improvvisamente e stampa cattolica (la Difesa del Popolo e L’Avvenire d’Italia) che inneggia, nel momento dell’assoluzione, al trionfo sui complotti anticlericali e massoni. 

Giusto per citare altri eventi accaduti nel Triveneto, ci furono una quindicina di casi simili nella provincia di Padova, dove l’arciprete di Este (PD) Don Antonio della Valle venne arrestato per disfattismo, ma assolto dopo la testimonianza del Vescovo (il famigerato Mons. Pellizzo), e il caso eclatante di Portogruaro (VE) dove il Vescovo Mons. Isola, fu picchiato e cacciato a furor di popolo dalla diocesi. Il presule fu soccorso da monsignor Celso Costantini, che aveva varcato il Piave il giorno precedente assieme al grosso degli abitanti di Portogruaro (VE) (si ricorda che 4000 dei 5000 abitanti fuggì oltre il Piave), e fu nascosto in una stalla. L’episodio è narrato dal soccorritore, nel libro “Foglie secche”, con limpida obiettività. «Monsignor Isola era nato quando il Veneto era sotto il dominio austriaco; in lui, come in molti altri preti veneti, era rimasto – se non il rimpianto –, ma certo una rispettosa memoria dell’Austria, che proteggeva la religione, e trattava con considerazione i preti. La rivoluzione italiana era stata inquinata da odio anticlericale. Nella nuova Italia la massoneria esercitava un grande odioso potere. (…) Monsignor Isola, dopo la rotta di Caporetto, già vecchio, pensò che gli austriaci sarebbero rimasti nei nostri paesi, instaurando l’antico dominio. Pensò pure che conveniva stabilire buoni rapporti coi nuovi padroni per poter meglio proteggere il popolo. Checché sia, il fatto sta che per il Natale del 1917, mentre Portogruaro era isolata e come in lutto per la sciagura della patria e per l’onta del prepotente invasore, egli celebrò il pontificale in duomo ed ebbe la infelice idea di dire che quel pontificale era più solenne del solito “per la presenza del valoroso esercito austriaco”. Per usar rispetto all’esercito (Austro-Ungarico N.d.R), non pensò che veniva a mancar di rispetto al dolore dei vecchi, delle madri e delle mogli che avevano i figli e i mariti oltre il Piave». «La folla che saccheggiò il vescovado e oltraggiò il Vescovo – scrisse monsignor Costantini – era costituita in gran parte da profughi del Piave». Di tale episodio si dà una versione, totalmente differente, anche da parte clericale, definendola “atto di squadrismo”, rifiutandosi di capire che l’anticlericalismo non era solo frutto di gruppi organizzati o di esponenti dei ceti dirigenti, ma anche di reazioni popolari al malcontento e l’insoddisfazione per le condizioni della Chiesa uscita dal tormentato pontificato di Pio X e assolutamente priva di sensibilità nei confronti di chi avesse sacrificato cari e averi alla nuova idea di Patria che stava sorgendo tutto intorno a loro.[7] 

Dopo la guerra questi stessi sacerdoti divennero comunque validi alleati per sconfiggere l’onda socialista che si infranse nel Veneto; molti processi si estinsero di morte “naturale”, prescritti o amnistiati, dal momento che “massoni” e clero dovevano fronteggiare un nuovo nemico che sembrava essere molto più agguerrito. I Patti Lateranensi posero fine all’attivismo del clero triveneto, ma il progetto di creare “ uno stato confessionale nello Stato laico” non fu mai definitivamente abbandonato. In ogni caso, ci si sente di dire che se il regno temporale del Papa finì il 20 settembre1870 sotto le scarpe dei bersaglieri di Cadorna, il progetto di stato confessionale dei Vescovi veneti probabilmente subì una grave battuta d’arresto sotto gli zoccoli della cavalleria di Diaz, all’inseguimento degli Austriaci nelle valli trentine e friulane. 

[1] Il vescovo Giuseppe Callegari resse la diocesi di Padova dal 1892 al 1906: nel 1880 vescovo di Treviso nomina direttore del seminario Giuseppe Sarto (futuro PIO X) a cui rimarrà legato da profonda amicizia. 
[2] G. Romanato, Luigi Pellizzo a Padova (1907-1923) in “Le scelte pastorali ...” p.93. [3]Gioacchino Volpe Il popolo italiano nella grande guerra (15-16) p. 264 
[4] Lettera anonima, Archivio Storico Diocesano di Treviso (ASDTv), Opera di Ricostruzione delle Chiese del Lungo Piave, b. 2, f. 1. Estratta dalla tesi di laurea “IL nemico interno a Treviso durante la Grande Guerra” Università Cà Foscari –Venezia Relatore Prof. Bruna Biachi Laureanda Tatiana Calmasini 
[5] Antonio Scottà (a cura di), I vescovi veneti e la Santa Sede nella guerra 1915-1918, 
[6] L’art.1 del decreto Sacchi stabiliva che «chiunque con qualsiasi mezzo commette o istiga a commettere un fatto che può deprimere lo spirito pubblico o altrimenti diminuire la resistenza del paese o recar pregiudizio agli interessi connessi con la guerra e con la situazione interna od internazionale dello Stato, quando tal fatto non costituisca altro reato previsto e represso dalla legge, sarà punito con la reclusione sino a cinque anni e con la multa sino a 5.000 lire. Nei casi di maggiore gravità, la reclusione potrà estendersi fino a dieci anni e la multa sino a 10.000 lire». 
[7] L. Bruti Liberati, Il clero italiano nella Grande Guerra, Editori Riuniti, Roma 1982, p.145 e pp. 169-189 sull’offensiva contro i parroci nelle “terre redente”.

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