venerdì 10 marzo 2023

Robert B. Stinnet, “ Il giorno dell'inganno - Pearl Harbor un disastro da non evitare”, 2001. Recensione di Antonio Ruscazio


 


Robert B. Stinnet, “ Il giorno dell'inganno - Pearl Harbor un disastro da non evitare”, 2001. 

di Antonio Ruscazio

Per le feste natalizie l’amico Ettore mi ha fatto dono di questo libro, non solo straordinariamente interessante, ma direi anche assolutamente attuale.

Negli Stati Uniti ci sono tre parole che non possono, in nessun caso, essere pronunciate: la prima è “negro”, le altre due sono “Pearl Harbor”.

Negli Stati Uniti la vicenda che causò il loro ingresso nella IIa G.M. viene molto sbrigativamente definita come il “proditorio attacco giapponese a Pearl Harbor”, e tutte le commissioni di inchiesta che si sono succedute dal 1942 al 1996 ben si sono guardate dallo scavare a fondo sull’argomento.

In particolare, in queste commissioni, mai fu discusso il fatto che F.D. Roosevelt non solo avesse perfetta conoscenza di ciò che stava per accadere, e men che meno venne mai adombrato il fatto che avesse posto in atto una serie di strategie perché ciò accadesse.
Eppure era noto a tutti che il Giappone era rimasto molto scontento delle concessioni ottenute dopo la fine della Ia G.M. e le tensioni nel Pacifico erano roventi, già da molti anni.

Nel bellissimo libro “La coda di Minosse” scritto dall’Ing. Felice Trojani, collaboratore dell’ing. Umberto Nobile (quello della spedizione del dirigibile “Italia” al Polo Nord, di cui l’ing. Trojani fu uno dei sopravvissuti), si racconta questo interessate episodio.

L’ing. Trojani si recò in Giappone nel 1926-7 per provvedere al rimontaggio di un dirigibile italiano acquistato dalla Marina imperiale giapponese. “Gli ufficiali giapponesi che seguivano il nostro lavoro” racconta Trojani, “non facevano mistero che una guerra con gli S.U. sarebbe sicuramente scoppiata. Ed ecco perché volevano i dirigibili: li volevano per l’esplorazione sul mare. Sarebbe stato sufficiente trovare la flotta americana riunita, anche una sola volta, e la guerra sarebbe stata vinta”. (Cit.)

Durante la IIa G.M., nella notte tra l’11 e il 12 novembre 1940 ,venti obsoleti aerosiluranti britannici misero in ginocchio la flotta italiana ancorata nella base di Taranto (3 corazzate danneggiate di cui una, il Cavour, in maniera tanto grave che non riprese più servizio, 1 incrociatore e 2 cacciatorpediniere). La cosa, da tutti gli “Alti Gradi” delle Marine Militari delle grandi Potenze (tranne la Gran Bretagna..) non veniva creduta possibile a causa del comportamento dei siluri nei bassi fondali.

Naturalmente tutti gli addetti militari presenti in quel periodo a Roma furono interessatissimi all’azione, e c’è da credere che la relazione inoltrata dall’Addetto navale giapponese non sia rimasta in un cassetto del suo Ministero a prendere polvere.

È noto che, negli anni immediatamente successivi alla fine della Ia G.M. la stragrande maggioranza della popolazione statunitense professava sentimenti fortemente isolazionisti: Franklin D. Roosevelt venne eletto in base all’esplicita dichiarazione in campagna elettorale di tener fuori gli S.U. dalla guerra.

Ma le classi dirigenti statunitensi sapevano benissimo che tenersi fuori dal conflitto sarebbe stato non solo impossibile, ma anche nocivo per gli interessi statunitensi, per molte ragioni, e si mossero lungo due direttrici, dirette e indirette.

Venne mandato in Giappone un ufficiale con una vasta conoscenza dell’Oriente, il Com. Arthur H. McCollum (August 4, 1898 – April 1, 1976), il quale era nato a Nagasaki, parlava il giapponese ed era un profondo conoscitore del mondo asiatico.

Il Comandante stilò un documento, definito appunto “memorandum McCollum” in otto punti, che prevedevano:

A. Stabilire un accordo con la Gran Bretagna per l'utilizzo delle basi britanniche nel Pacifico, in particolare a Singapore.

B. Stabilire un accordo con i Paesi Bassi per l'utilizzo delle strutture di base e l'acquisizione di rifornimenti nelle Indie orientali olandesi.

C. Dare tutto l'aiuto possibile al governo cinese di Chang-Kai-Shek.

D. Inviare una divisione di incrociatori pesanti a lungo raggio in Oriente, Filippine o Singapore.

E. Inviare due divisioni di sommergibili in Oriente.

F. Mantenere la forza principale della flotta statunitense ora nel Pacifico in prossimità delle Isole Hawaii.

G. Insistere affinché gli olandesi si rifiutino di accogliere le richieste giapponesi di indebite concessioni economiche, in particolare il petrolio.

H. Mettere completamente sotto embargo tutto il commercio degli Stati Uniti con il Giappone, in collaborazione con un simile embargo imposto dall'Impero britannico.

Tutti questi punti vennero puntualmente soddisfatti.

Dal punto di vista diretto venne sostituito il Comandante della Flotta del Pacifico, l’Amm. Richardson, che si era strenuamente opposto al riposizionamento della flotta da San Diego a Honolulu, con l’Ammiraglio H. Kimmel mentre, nello stesso periodo, il comando delle forze di terra e delle forze aeree (l’aviazione era ancora sotto il comando dell’Esercito) venne affidato al Generale Short.

Tutta la storiografia statunitense si basa su fatti che Sinnet dimostra chiaramente essere falsi, in particolare che i servizi di informazione statunitensi non fossero in grado di intercettare e decrittare i codici giapponesi, mentre la documentazione raccolta dall’autore dimostra il contrario: inoltre sia l’Amm. Kimmel che il Gen. Short vennero sistematicamente tenuti all’oscuro degli importantissimi contenuti di queste intercettazioni.

Quando poi l’Amm. Kimmel, che era un ottimo professionista, e che sapeva che un eventuale assalto sarebbe venuto dal nord, come in effetti avvenne, organizzò una ricognizione in forze in quella direzione, venne “redarguito” da Washington con l’affermazione che “il governo statunitense non voleva creare provocazioni”.

Era infatti esplicita dichiarazione del governo statunitense (leggi: F.D.R.), alla luce delle crescenti tensioni: “Gli S.U. desiderano che il Giappone compia il primo atto diretto”.

Sempre da Washigton pervennero solo vaghi accenni sulla possibilità di eventuali “atti di sabotaggio” e di prendere “provvedimenti senza allarmare la popolazione”.

Pertanto le corazzate, tutte di vecchia concezione, perché costruite durante la Ia G.M., anche se successivamente rimodernate, ma del tutto inadatte ad una guerra moderna perché troppo lente e quindi incapaci di stare al passo con le nuove portaerei, rimasero tranquillamente ancorate in quello che a Honolulu veniva chiamato il “viale delle corazzate”.

Le portaerei invece, che l’episodio di Taranto prima e della Bismark poi avevano dimostrato essere le sole navi veramente importanti in un conflitto navale moderno, vennero su ordine di Washington allontanate con scusa varie da Pearl Harbor. “Ma dove sono le portaerei?” chiesero concitatamente per radio gli equipaggi degli aerei nipponici all’attacco su Pearl Harbor.

Da notare che già al 1939, in risposta sia alle violazioni giapponesi del “Trattato di Washington” (peraltro già ampiamente dimostratosi “carta straccia” per tutte le maggiori Potenze dell’epoca), sia al “Piano “Z” della Kriegsmarine, gli S.U. avevano impostato un piano di riarmo navale di entità colossale, e le vecchie corazzate costruite nella Ia G.M. sarebbero state presto sostituite delle nuovissime corazzate veloci classe “Iowa” il cui servizio proseguì addirittura sino alle Guerre del Golfo.

L’Amm. Isoroku Yamamoto, comandante della “Flotta combinata”, era un ottimo conoscitore degli Stati Uniti, e sapeva quindi perfettamente che una guerra prolungata del Giappone contro gli S.U. era improponibile, per cui ideò un piano alla “o la va, o la spacca”, mirante a infliggere alla U.S. Navy un colpo talmente duro da costringere gli americani a venire perlomeno a patti.

Viceversa, la segretezza con la quale i militari giapponesi circondavano le loro esercitazioni, condotte in isole remote lontane da sguardi indiscreti, cosa facilissima in Giappone, fece probabilmente sottostimare ai militari americani i danni che un attacco giapponese avrebbe potuto provocare, anche se, come detto, la segretezza nipponica, come quella germanica, veniva meno quando si trattava di comunicazioni radiofoniche.

Il resto è Storia.

Come afferma Stinnet “..può darsi che Roosevelt avesse ragione nel comportasi in questo modo…” (cit.).

Può essere questo libro riportato all’attualità? Penso proprio di si, ma lascio ogni ulteriore considerazione al lettore di questi brevi e incomplete note.


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