martedì 20 febbraio 2024

"Comandante", una recensione (2023) di Antonello Ruscazio del film di E. De Angelis



 

Una recensione di Antonello Ruscazio

"Comandante"

film del 2023 diretto da Edoardo De Angelis                                                                          Sceneggiatura Edoardo De Angelis,Sandro Veronesi            Protagonista Pierfrancesco Favino nel ruolo di Salvatore Todaro

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Da italiano, e da italiano orgoglioso di esserlo, non posso che ringraziare la produzione del film per la sua determinazione nel voler portare sugli schermi questo episodio della IIa G.M. e, se esprimerò quindi qualche critica, non vuol dire minimamente che io sconsigli la visione del film, anzi.

Avevo visto, prima dell’uscita del film, alcune foto del set in cui veniva girato ed avevo avuto quindi modo di apprezzare molto positivamente la fedeltà della ricostruzione dell’opera morta (per i non tecnici: la parte della nave che sta sopra la linea di galleggiamento) del R. Smg. “Comandante Cappellini” (sommergibile oceanico della classe Marcello, 1059 tonnellate di dislocamento in superficie, 1313 in immersione), ma immaginavo già prima di vederlo che che nel film ci sarebbero stati molti errori “tecnici”, come in tutti i fim sui sommergibili, per cui ero preparato.

Occorre tenere presente che ho visto il film al cinema e quindi, non potendo chiedere all’operatore di portare indietro la pellicola e farmi un fermo immagine, alcune delle cose che esporrò in queste righe, che non intendono essere un’esegesi dell’opera cinematografica o il resoconto delle missioni del “Cappellini" in Atlantico, sono il frutto di una visione piuttosto fugace, che cercherò di mettere a punto qualora riuscissi a trovare una versione DVD.

Iniziamo con la partenza.

A mia informazione la partenza di un sommergibile, soprattutto nei primi mesi del conflitto, avveniva in maniera ben diversa da quella da tragedia greca mostrata nel film: mi sembra strano che il Comandante della Squadriglia sommergibili (almeno...) alla quale il “Cappellini” apparteneva sia rimasto sotto le coltri, non fosse presente una banda musicale e le signorine in abbigliamento non dico da da moderna “influencer” ma di certo non consono agli standard di dignità delle donne dell’epoca che si vedono nel film non abbiano gettato mazzi di fiori.

Questa chiamiamola così “coreografia” aveva i suoi precisi significati: uno evidentemente propagandistico, e un altro, più importante, che doveva far ricordare all’equipaggio che la Nazione considerava i sommergibilisti la crema della crema delle proprie Forze Armate e che quindi, una volta chiusi in un tubo d’acciaio a decine di metri sotto la superficie del mare e a contatto con il nemico, l’intera Nazione avrebbe contato su di loro.

Non si può essere tuttologi e non sono un esperto di uniformologia, ma la foggia del berretto del Comandante Todaro mi sembrerebbe più simile a quello di un “Seniore” della “Milizia Volontaria Sicurezza Nazionale” che a quallo di un Capitano di Corvetta della Regia Marina di allora, colore a parte. Mah…

Episodio molto verosimile invece quello in cui il Comandante Todaro ispeziona l’equipaggio e non fa imbarcare un Sottocapo elettricista perché visibilmente sofferente.

Il medesimo episodio si verificò alla partenza di quella che fu l’ultima missione del più famoso e più vittorioso sommergibile italiano ( e forse di tutta la IIa G.M. : non furono molti quelli che misero fuori combattimento due corazzate nella stessa missione...) il R.Smg. “Scirè”, salvandogli in tal modo la vita. Il marimaio in questione, che diventò poi un imprenditore di successo, non si diede mai pace per non aver partecipato a quella missione. (Episodio raccontatomi personalmente dalla Figlia).

Marcon”

Usa il fischietto e sembrerebbe quindi il nostromo, in quanto l’uso del fischietto non si addice alla dignità di un Ufficiale, ma un nostromo, benché persona di grande autorità a bordo, non può di certo avere una tale familiarità con il Comandante.

Ma ancora meno verosimile sono le sue sembianze da vecchio Nettuno decisamente in là con l’età: di certo a bordo dei sommergibili si invecchiava presto (se si invecchiava…) ma era raro che ci fossero a bordo persone oltre i trent’anni, perché solo giovani e giovanissimi avrebbero potuto resistere all’estrema durezza della vita e dei combattimenti a bordo.

Marcon” sarebbe stato quindi sbarcato da parecchi anni. Lo stesso C.C. Salvatore Todaro, nato nel 1908, nel 1940 aveva 32 anni e quindi anche la figura dell’attore protagonista non sembrerebbe forse delle più adeguate.

Ero giovanissimo allora ma ricordo perfettamente: guardavo un film su un sommergibile americano con mio Zio Luigi, fratello di mio Nonno Antioco, entrambi sommergibilisti, mio Nonno durante la Ia G.M., mio Zio negli anni ’20: (qui la sua foto)

https://cliolamusadellastoria.blogspot.com/.../hitlers-u... )

che si mise a ridere fragorosamente quando vide che alcuni marinai avevano la sigaretta in bocca. È vero che si trattava di un film americano, e a bordo dei sommergibili americani, in particolarissime situazioni, poteva essere concesso di fumare una sigaretta ma, di certo, non sui sommergibili dell’Asse.

Sempre a mia conoscenza, a bordo dei sommergibili italiani era vietato radersi senza l’autorizzazione del Comandante. L’acqua dolce infatti non serviva solo per bere, ma soprattutto per le batterie di accumulatori per la propulsione e le utenze di bordo, che la divoravano. Il T.V. Gino Birindelli, in occasione dell’operazione “GB2” chiese al Comandante Junio Valerio Borghese il permesso di farsi la barba, con queste parole: “Signor Comandante, poiché un gentiluomo si rade prima di uscire di casa, e visto che non è improbabile oggi un incontro con qualche gentiluomo inglese, chiedo il permesso di potermi radere. ”

Sui sommergibili americani le cose erano diverse, in quanto, essendo di dislocamento molto maggiore per poter affrontare le lunghissime distanze dell’Oceano Pacifico, avevano a bordo potenti impianti di dissalazione.

Episodio del campo minato.

Episodio quanto mai inverosimile. Non potevano esserci campi minati a Gibilterra per una duplice ragione: la prima perché le acque territoriali attorno e di fronte a Gibilterra sono acque territoriali spagnole o controllate dalla Spagna, e gli spagnoli non avrebbero di certo apprezzato la creazione di campi minati nelle loro acque territoriali; la seconda perché, dal punto di vista tecnico, l’ancoraggio di mine in fondali come qualli attorno a Gibilterra, profondi e percorsi da forti correnti, non era semplicemente possibile. Dato inoltre il vasto traffico britannico da e verso Gibilterra, le mine britanniche avrebbero causato molto probailmente più vittime amiche che nemiche.

Da notare come gli addestratissimi equipaggi dei sommegibili tedeschi ebbero sempre problemi nell’attraversamento dello Stretto, mentre non ne ebbero i sommergibili italiani.

Ma assolutamente inverosimile è la scena del coraggioso marinaio, corallaro di Torre del Greco (se non ricordo male) che esce dal sommergibile con l’A.R.O. (autorespiratore a ossigeno), taglia il cavo di ancoraggio della mina, libera il sommegibile e muore.

Primo. Se il “Cappellini” fosse incappato in un campo minato non ci sarebbe stata nessuna scena del genere: l’equipaggio avrebbe sentito esclusivamente il sinistro stridio dello strisciamento del cavo sulla fiancata e due o tre scondi dopo lo scoppio. Et finis…

Secondo. La pesca del corallo non avveniva, come oggi, con l’immersione di sommozzatori, ma con un particolare attrezzo, detto “ingegno”, che veniva trascinato sul fondo. Comunque, correttamente, nel film il marianaio si preoccupa perché l’autorespiratore a ossigeno è un attrezzo molto pericoloso e può essere usato con sicurezza sino a profondità massime di 18/20 m in quanto, se la pressione parziale dell'ossigeno supera le 1,3-1,4 atmosfere, si ha il fenomeno dell’avvelenamento da ossigeno.

L’A.R.O. viene usato dalle Marine militari perché, a differenza di quello ad aria (utilizzabile sino a 100 m di profondità, e oltre), non emette bolle ed ha una maggiore autonomia.

Nel 1940 l’A.R.O. era un’attrezzatura ancora sperimentale e dubito che fosse presente a bordo del “Cappellini”, men che meno la modernissima versione che indossa il marinaio….

L’attaco dell’aereo avvenne in una missione successiva rispetto a quella di cui il film tratta (ottobre 1940), e precisamente il14 gennaio 1941.

In 1122 8° 53'N, 14° 56'W Alle 11.20, il Cappellini stava per immergersi quando fu avvistato un aereo. Due minuti dopo, sganciò quattro bombe che colpirono il sottomarino all'estremità di prua e al centro della nave. L'attacco era stato effettuato da un Walrus del 710 Squadron (FAA) dell'idrovolante HMS Albatross con base a Freetown. In realtà aveva sganciato tre bombe A/S da 100 libbre.

Il sottomarino venne gravemente danneggiato e dovette rifugiarsi a Luz (Gran Canaria) per le riparazioni.

L’aereo del film non è un idrovilante Walrus ma sembra un Spitfire degli ultimi modelli costruiti durante la guerra, riconoscibile per il doppio radiatore sotto le ali. Nel 1940 gli Spitfire valevano l’oro che pesavano per la difesa delle Isole britanniche e passerà un bel po’ di tempo prima che siano inviati oltremare.

Ma, a parte il modello dell’aereo, ovviamente trovare un Walrus in condizioni di volo oggi è impossibile (btw: il Walus e lo Spitfire vennero progettati entrambi dal famoso progettista aeronautico R. Mitchell) non convince il numero eccessivo di marinai presenti in coperta. Che cosa ci stavano a fare? Per un sommergibile è vitale la velocità di immersione e ogni uomo in più in coperta significa il suo rallentamento, oltre a presentare pericoli di vario genere.

Una certa liberalità era concessa nei primi tempi del conflitto solo nel cosiddetto “air gap”, una zona al centro dell’Atlantico dove l’autonomia degli aerei alleati non riuscì a coprire la zona, per mezzo di quadrimotori a lungo raggio e con le portaerei di scorta, se non a partire dal 1943.

Il sommergibile nel film emette troppo fumo! Aveva un motore diesel, non un motore a vapore!

Quello che un comandante di sommergibile proprio non apprezzerebbe è la possibilità di individuazione del proprio battello a grande distanza. Ergo, se il sommergibile avesse emesso tutto quel fumo, “cazziatone“ del Comandante al Tenente G.N. responsbile e via via, in scala gerarchica, sino all’ultimo dei sottocapi presenti in sala macchine.

A proposito, mi sembrerebbe di aver visto una targhetta “FIAT” apposta sui motori del sommergibile. Se ho visto bene, è è un particolare esatto, in quanto il “Cappellini”, ed il gemello “Comandante Faà di Bruno” ebbero motori diesel FIAT, mentre le nove unità precedenti della medesima classe avevano motori CRDA.

Molto criticato, in tutti i commenti che ho letto, è stato l’episodio delle “patate fritte e del mandolino”.

Certo dal punto di vista cinematografico non mi sembra una scena da Premio Oscar, ma personalmente mi inizia a diventare noiosa la ripetizione del “sempre la solita solfa degli”italiani, brava gente..:”, letto in tutti i commenti.

È certamente fondamentale indagare pienamente su qualsiasi episodio avvenga in guerra, ma questo completo rovesciamento che vedeva le truppe italiane dapprima appunto come “brava gente”, per poi cambiare repentinamente facendo apparire gli italiani come poco diversi dalle truppe delle Divisioni Totenkopf mi sembra solo una ulterione dimostrazione della consueta mancanza di obbiettività di taluni storici (?) italiani ma non solo, soprattutto quelli più schierati ideologicamente.

Per cui penso sia meglio lasciare la parola al “nemico” di allora:

“… L’esercito sovietico marciava verso occidente, i prigionieri di guerra verso oriente. I rumeni avevano cappotti verdi e alti copricapi di astrakan. Sembravano patire il freddo meno dei tedeschi. Guardandoli, Darenskij non vedeva i soldati di un’armata sconfitta, ma una fiumana di migliaia di contadini stanchi e affamati con strani cappelli in testa. Di loro ci si faceva beffe, ma li si guardava con pietoso disprezzo, senza astio. Solo gli italiani, avrebbe visto poi, godevano di un’indulgenza ancora maggiore.”

Grossman, Vasilij. Vita e destino (Italian Edition) (p.955). Adelphi. Edizione del Kindle.

Antonello Ruscazio


venerdì 15 dicembre 2023

"Hitler Il figlio della Germania di Antonio Spinosa", Mondadori, 1991. Una nota di Antonello Ruscazio


 


Ovviamente questo è argomento sul quale sono state scritte intere
biblioteche, ma il libro risulta interessante perché tratta in maiera
molto più estesa che in altri testi i rapporti tra la Germania nazista e
l’Italia fascista o, meglio, tra quelli che i cinegiornali dell’epoca
chiamavano i due “Condottieri”.
Mostra quindi in maniera chiara come si siano rovesciate le parti dal
1933, quando Hitler salì al potere guardando a Mussolini come guida ed
esempio, sino agli anni dopo il 1940, o meglio, il 1938, quando le parti
si rovesciarono e fu Mussolini ad essere succube di Hitler.
Questo accadde, oltre ad altre cose ovviamente, anche perché il “Duce,
che aveva passato alcuni anni in Svizzera come “migrante”, diremmo oggi,
si piccava di conoscere benissimo il tedesco e durante i colloqui
riservati con il dittatore tedesco rifiutava l’interprete: pertanto
questi colloqui si risolvevano in interminabili mnologhi da parte di
Hitler, senza un vero contraddittorio.
Naturalmente, come nei libri di tutti i giornalisti che scrivono libri
di Storia, molti dettagli sono clamorosamente sbagliati e fanno molto
riferimento ad una “vulgata” corrente, che rischia di dare nozioni
sbagliate al lettore.
Ad esempio, pag. 468:
“Invece i suoi generali, come diceva il maresciallo von Paulus,
temevano l’apertura di un secondo fronte…”  
Errore doppio.
Prima di tutto von Pulus non era von Paulus ma era Friedrich Wilhelm
Ernst Paulus (Guxhagen, 23 settembre 1890 – Dresda, 1º febbraio 1957) e
basta, non facendo l’ufficiale tedesco parte della nobiltà terriera
prevalentemente prussiana, essendo figlio di un ragioniere.
Questa svista non è una noiosa pedanteria, perché occorre mettere in
evidenza i burrascosi rapporti che Hitler ebbe con i suoi generali e in
particolare la predilezione che Hitler sempre ebbe per i generali venuti
su “dal popolo” (come Rommel, figlio di un insegnante) rispetto a quelli
facenti parte della casta degli “Junkers”, dei quali però non poteva
fare a meno per le loro straordinarie capacità professionali.
Sicuramente Paulus era un generale coscienzioso e ben preparato ma,
come la storiografia ha ampiamente dimostrato, mancante delle doti di
personalità e di visione strategica necessarie per comandare l’Armata
più potente messa su dalla Germania nazista durante la IIa G.M.
Inoltre, in quel periodo, Paulus non era “Maresciallo” ma un semplice
“tenente generale”: venne promosso Feldmaresciallo pochi giorni prima
della resa di Stalingrado in quanto Hitler sperava, visto che nessun
Felmaresciallo tedesco si era mai arreso al nemico, che Paulus si
suicidasse, cosa che non avvenne.  
Pag. 490, parlando della seconda battaglia di El Alamein (o terza
battaglia di El Alamein per quegli autori che chiamano la battaglia di
Alam Halfa seconda battaglia di El Alamein), combattuta tra il 23
ottobre e il 5 novembre 1942:
“Le divisioni di Montgomery avevano sfondato le linee italiane del
fronte sud…” Ma neanche per idea…
Il fronte sud, tenuto dalla dalla mitica Divisione paracadutisti
“Folgore” e dalla Divisione “Pavia” tenne, anche dove la linea era
costituita da un velo, frustrando così i piani del Gen Montgomery di
accerchiare con un unico movimento aggirante tutto lo schieramento
italo-tedesco: naturalmente tutta la storiografia britannica afferma che
l’attacco a sud fu solamente dimostrativo, e che l’attacco vero e
proprio si svolse più a nord, dove avvenne in effetti lo sfondamento, in
un’area di cesura tra truppe italiane e truppe tedesche. Vista la
resistenza, il ge. Montgomery spedì il Gen. Horrocks a nord, per
completare lo sfondamento in atto. I britannici lasciarono di fronte
alla “Folgore” oltre seicento morti accertati, oltre ai feriti e e a
tutti quelli che morirono poi nelle retrovie, strage non certo da
attacco “dimostrativo”.
Pag. 516:
Ai disastri in territorio italiano, al crollo del fronte russo,
all’ecatombe dei sommergibili (gli Alleati avevano inventato il
radar) …
Il radar gli Alleati lo avevano inventato da un pezzo e di certo non
era una novità,neppure per i tedeschi, visto che lo usavano con successo
per affrontare le formazioni dei bombardieri alleati che imperversavano
nei cieli della Germania. Quello che gli alleati inventaroro era il
magnetron (inventato dagli inglesi, prodotto in quantità industriali
dagli americani), un particolare tipo di valvola termoionica che permise
la costruzione di apparati radar miniaturizzati tali da poter essere
montati sugli aerei ed operanti su frequenze talmente alte da essere
inintercettabili per gli apparati di rivelazione tedeschi di
allora. 
Il magnetron, segretissimo negli anni ’40, oggi è presente in tutte le nostre cucine dentro il forno a microonde… Insomma, un libro di piacevole lettura ma, anche se non si arriva alle piacevolezze montanelliane, talvolta fuorviante per chi abbia passione per la verità storica e per l’informazione precisa.
Antonello Ruscazio

venerdì 8 dicembre 2023

I Mille di Bandi, una recensione di Mauro Scorzato


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Giuseppe Bandi , l’estensore de “I Mille” è il classico toscano dell’800. Nella sua biografia si legge che fu laureato in Giurisprudenza ma non praticò mai,e che da buon repubblicano e mazziniano, dopo la galera di prammatica, preferì arruolarsi subito in un battaglione di volontari toscani (erano quelli tempi in cui gli studenti non irridevano i militari ma ne traevano esempio) per poi transitare nell’esercito dei Savoia (allora Armata Sarda) dopo l’annessione del Granducato.

Durante la sua prima esperienza militare ebbe a conoscere Garibaldi, di cui subito si innamorò, subendone il fascino nel modo in cui solo un uomo d’azione può subirlo. Infatti alla prima occasione preferì abbandonare L’Armata Sarda per l’avventura che lo vide, al fianco del suo leader, portare forse la più grande delle vittorie alla casata per la quale non avrebbe dovuto avere grandi simpatie. La narrazione dell’avventura dei “Mille” avviene, per sua stessa ammissione, in forma memorialistica ma, assai spesso, fa riferimento a fatti e conversazioni di cui gli venne riferito da persone, come egli stesso le definisce, “a me fidate”.

Il ritratto che ne esce dell’impresa dei Mille è senz’altro il ritratto dei personaggi che la condussero, al di là di tutte le difficoltà e di tutte le volontà avverse, di una fede ferrea che oggi, affetti come siamo dal relativismo filosofico, ci risulta incomprensibile. Smontati tutti gli dèi, con un anticlericalismo acerrimo, ma che non disdegna di assorbire quei religiosi che credano anch’essi nella causa ( all’arrivo in Sicilia tutti gli ordini religiosi, con particolare riferimento ai gesuiti, furono sciolti col primo editto), l’unica vera religione diventa la riuscita dell’impresa.

Invano il lettore cercherà dettagli militari che possano spiegare come una masnada di personaggi male in arnese, male armati, con un addestramento approssimativo, scarsi di tutto tranne che di nemici siano riusciti a sbaragliare uno degli eserciti meglio equipaggiati ed addestrati del tempo nella penisola. Ricordiamo infatti che l’esercito Borbonico fu il primo a praticare il tiro mirato anziché le “volate”, cosa di cui anche il nostro farà le spese. Sembra che tutto possa essere risolto con una carica furiosa, con una mischia feroce purché benedetta dalla presenza dell’Eroe dei due Mondi, divinizzato,ancor più che ammirato per le sue capacità di condottiero.

Solo con l’apparire di Mazzini, che ricorda a Bandi, repubblicano della prima ora, che Vittorio Emanuele II rimane pur sempre un sovrano, la fede comincia a mostrare qualche timida crepa subito ricoperta dallo stucco della fiducia sull’unità del Paese.

Solo verso la fine del libro alle formazioni garibaldine si affiancano le più ordinate e disciplinate unità dell’Armata Sarda, che in fondo snobbano (quando non proprio disprezzano) quei militari fai-da-te indisciplinati, scalcagnati ma costantemente pronti al combattimento. Pur sapendo che alla fine quelle strane figure in camicia rossa sarebbero state assorbite in quello che diverrà dopo il 1861 il Regio Esercito Italiano e sarebbero quindi ritornati ad essere “colleghi”, gli ufficiali sabaudi trovavano forse più affinità con gli sconfitti ufficiali borbonici che con quegli ufficiali parte raccolti dalla politica senza alcuna cultura militare, parte addirittura disertori dell’Armata Sarda. Rimane interessante vedere con quanta allegria venisse interpretata la diserzione a quei tempi, quando solo pochi anni dopo i disertori fronteggeranno i plotoni d’esecuzione e non a caso viene spesso citato come esempio Giovanni delle Bande nere, al secolo Giovanni de’Medici, noto Capitano di ventura).

Solo chi ha conosciuto forse più nel dettaglio la Storia dell’Esercito Italiano vedrà la nascita di quei caratteri che da allora fino ad oggi lo caratterizzeranno; da un lato gli ufficiali “sabaudi” ligi all’autorità costituita, e vicini al potere che genereranno negli anni personaggi quali Badoglio e Diaz, dall’altra i “garibaldini” che nel proseguo diverranno gli Arditi nella Prima Guerra Mondiale o gli ufficiali coloniali e le forze speciali italiane che tanto diedero filo da torcere agli anglo americani nella Seconda guerra mondiale.

Il Bandi alla fine diverrà giornalista, fonderà il quotidiano di Livorno “il Telegrafo” (che oggi si chiama “il Tirreno”). Utilizzò tutte le energie fisiche e morali per continuare a difendere quell’ideale di Italia, anche senza rifuggire da quei compromessi che nel divenire di quegli anni si rendevano necessari per perseguire il suo fine ultimo. Come tutti gli idealisti di quel tempo, gli occhi rimanevano fissi sul fine e come dirà qualcuno se mantenendo gli occhi sul fine si calpesta qualcosa di sporco, pazienza.

Terminerà la sua vita accoltellato a morte da due anarchici per la strenua difesa dei valori del Risorgimento che aveva condotto dalle colonne del suo giornale: chi prima di assassinarlo, lo aveva minacciato di morte non aveva capito il calibro dell’uomo che aveva di fronte. Se le pagine del suo libro hanno descritto la sua personalità fedelmente, non avrebbe voluto morire in nessun altro modo.

Mauro Scorzato


domenica 23 luglio 2023

"Hitler’s U-Boat war" di Clay Blair. Recensione di Antonio Ruscazio.


 

Clay Blair (1925 – 1998)                                                                                                      Hitler’s U-Boat war

Vol I – The Hunters                                                                                                                  Vol. II – The Hunted

Ed. 1997

Grazie alla generosità dell’amico Ettore sono entrato in possesso dell’ edizione cartonata di questi volumi, testi che rappresentano, a parte quelli ufficiali, uno tra i più completi resoconti della guerra sottomarina condotta dalla Kriegsmarine (citata, solo di sfuggita, la Regia Marina) contro gli Alleati nella IIa G.M.

Quella che W. Churchill, abilissimo oratore e propagandista, definì la “Battaglia dell’Atlantico”, fu la più lunga campagna della IIa G.M.: iniziò poche ore dopo la dichiarazione di guerra nel 1939 e, anche se gli Alleati poterono considerarla vinta già nel maggio 1943, finì solo con la disfatta nazista nel 1945.

L’autore, Clay Blair (1925 – 1998), lui stesso un sommergibilista che prestò servizio nella U.S. Navy, è stato un giornalista e scrittore americano.

Senza voler entrare troppo nel dettaglio, la Seconda Guerra Mondiale iniziò dove era finita la Prima, vale a dire con gli Inglesi che tentavano di affamare la Germania con un blocco navale e con la Germania che tentava di affamare gli Inglesi tramite la guerra sottomarina.
In effetti l’idea di Hitler, prima dello scoppio del conflitto, era quella di costruire una enorme flotta in grado di aprirsi la strada con la forza nel Mare del Nord contro la Royal Navy. Vedasi Piano Z

https://it.wikipedia.org/wiki/Piano_Z 

Ma l’Inghilterra, dichiarando la guerra il 3 settembre 1939, per così dire “rubò il tempo” ai tedeschi, che si videro così costretti ad archiviare questo piano grandioso.

La forza sottomarina prevista in questo piano era relativamente ristretta, in quanto lo Stato Maggiore della KM giustamente riteneva che il passaggio degli U-boot attraverso il mare del Nord o, ancora di più, nel canale della Manica, sarebbe stato particolarmente pericoloso, dati i nuovi mezzi di scoperta ( ASDIC per gli inglesi, SONAR per gli americani).

https://it.wikipedia.org/wiki/Sonar

Inoltre il lungo percorso da effettuare dalle basi germaniche verso le “zone di caccia”, situate in mezzo all’Atlantico , avrebbe consentito ai battelli sottomarini una permanenza operativa in queste zone relativamente breve.

Ma due fatti vennero a mutare questa situazione: con l’ausilio fondamentale della Luftwaffe, la Wehrmacht poté occupare nell’aprile del 1940 la Danimarca e la Norvegia, consentendo così un transito sicuro verso l’Atlantico e, cosa che neppure il più ottimista dei componenti dello SM tedesco avrebbe ritenuto possibile in tempi così rapidi, nel giugno del medesimo anno, addirittura la Francia, assicurandosi in tal modo le basi direttamente sulla costa atlantica.

In questa situazione gli scenari relativi alla guerra sottomarina cambiarono radicalmente: in particolare i tedeschi si videro aprire la possibilità, con la costruzione una numerosa flotta sottomarina, di tagliare definitivamente il flusso di rifornimenti verso la Gran Bretagna.

Da questo punto in poi si può dire si aprì da una parte una guerra propagandistica, con gli Inglesi che accentuavano la minaccia sottomarina tedesca con la scopo di far intervenire gli Stati Uniti nel conflitto, dall’altra con la propaganda tedesca che gonfiava i risultati ottenuti dai sommergibili, risultati a cui lo stesso Comando della KM finì per credere.

A questo punto, come accadde anche nella Ia G.M., si ebbe uno scontro tra la cocciutaggine britannica e la testardaggine tedesca.


La cocciutaggine britannica consistette nel fatto che, già da prima dello scoppio del conflitto, seguendo teorie di “guerra aerea totale” del gen. Giulio Douhet (Caserta, 30 maggio 1869 – Roma, 15 febbraio 1930) in Italia e dell’A.M. H. Trenchard (Taunton, 3 febbraio 1873 – Londra, 10 febbraio 1956) in Inghilterra, l’unico modo di vincere una guerra moderna era considerato quello di polverizzare con massicci bombardamenti, anche con fine terroristico, le città nemiche.

Pertanto in Inghilterra la stragrande maggioranza delle risorse venne allocata al Bomber Command, trattando come il parente povero il Coastal Command, che aveva lo scopo di proteggere i convogli marittimi, lesinandogli, perlomeno sino agli inizi del 1943, uomini e mezzi.

La testardaggine tedesca consistette invece nel non tenere conto del fatto che, sostanzialmente, i sommergibili della IIa G.M. erano praticamente identici a quelli della Ia: una velocità massima di 17 nodi ( 32 km/h circa, la velocità di un modesto ciclista), ottenuta a prezzo di un insostenibile consumo di carburante ed una in immersione di soli 8 nodi (anche qui con una autonomia limitata a poche ore), con un’arma, il siluro, del tutto inaffidabile (si veda “Crisi dei siluri”), non adatta a una guerra moderna.

Per non parlare della decrittazione dei codici tedeschi, che i la KM riteneva assolutamente invulnerabili (vedi Alan Turing).

I tedeschi tentarono spasmodicamente di migliorare i loro mezzi subacquei, con i tipi XXI e XXIII, ma l’armistizio li trovò ancora nei cantieri.
Come si è detto, la guerra sottomarina venne praticamente vinta dagli Alleati nel maggio del 1943, mese in cui la KM perse oltre quaranta sommergibili.

Questo sia per l’enorme superiorità di mezzi messa in campo dagli Alleati, sia perché, vennero destinate al Costal Command sufficienti risorse sottraendole al Bomber Command, in particolare i grandi bombardieri quadrimotori B-24 VLR (Very Long range) muniti di radar particolarmente avanzati operanti su banda centimetrica, di cui i tedeschi non sospettavano neppure l’esistenza, e il cui utilizzo permetteva di scoprire un sommergibile in emersione anche di notte, quando i sommergibili erano soliti agire.

Certamente la guerra sottomarina provocò enormi lutti sia tra i cacciati che tra i cacciatori ( di tutte le Forze Armate, di qualsiasi nazione, i sommergibilisti patirono le percentuali di perdite più elevate, e gli equipaggi delle marine mercantili subirono perdite paragonabili a quelle dei sommergibilisti) ma, fortunatamente per il mondo libero, come questi libri dimostrano, mai i sommergibili misero in pericolo i rifornimenti: al culmine della loro attività (fine 42-inizio 43) i sommergibilisti tedeschi riuscirono ad affondare solo il 5% del tonnellaggio navale da e per l’Inghilterra.

Nella foto: il Sottocapo sommergibilista Luigi Pitzalis, nato a Cagliari nel 1901.

venerdì 10 marzo 2023

Robert B. Stinnet, “ Il giorno dell'inganno - Pearl Harbor un disastro da non evitare”, 2001. Recensione di Antonio Ruscazio


 


Robert B. Stinnet, “ Il giorno dell'inganno - Pearl Harbor un disastro da non evitare”, 2001. 

di Antonio Ruscazio

Per le feste natalizie l’amico Ettore mi ha fatto dono di questo libro, non solo straordinariamente interessante, ma direi anche assolutamente attuale.

Negli Stati Uniti ci sono tre parole che non possono, in nessun caso, essere pronunciate: la prima è “negro”, le altre due sono “Pearl Harbor”.

Negli Stati Uniti la vicenda che causò il loro ingresso nella IIa G.M. viene molto sbrigativamente definita come il “proditorio attacco giapponese a Pearl Harbor”, e tutte le commissioni di inchiesta che si sono succedute dal 1942 al 1996 ben si sono guardate dallo scavare a fondo sull’argomento.

In particolare, in queste commissioni, mai fu discusso il fatto che F.D. Roosevelt non solo avesse perfetta conoscenza di ciò che stava per accadere, e men che meno venne mai adombrato il fatto che avesse posto in atto una serie di strategie perché ciò accadesse.
Eppure era noto a tutti che il Giappone era rimasto molto scontento delle concessioni ottenute dopo la fine della Ia G.M. e le tensioni nel Pacifico erano roventi, già da molti anni.

Nel bellissimo libro “La coda di Minosse” scritto dall’Ing. Felice Trojani, collaboratore dell’ing. Umberto Nobile (quello della spedizione del dirigibile “Italia” al Polo Nord, di cui l’ing. Trojani fu uno dei sopravvissuti), si racconta questo interessate episodio.

L’ing. Trojani si recò in Giappone nel 1926-7 per provvedere al rimontaggio di un dirigibile italiano acquistato dalla Marina imperiale giapponese. “Gli ufficiali giapponesi che seguivano il nostro lavoro” racconta Trojani, “non facevano mistero che una guerra con gli S.U. sarebbe sicuramente scoppiata. Ed ecco perché volevano i dirigibili: li volevano per l’esplorazione sul mare. Sarebbe stato sufficiente trovare la flotta americana riunita, anche una sola volta, e la guerra sarebbe stata vinta”. (Cit.)

Durante la IIa G.M., nella notte tra l’11 e il 12 novembre 1940 ,venti obsoleti aerosiluranti britannici misero in ginocchio la flotta italiana ancorata nella base di Taranto (3 corazzate danneggiate di cui una, il Cavour, in maniera tanto grave che non riprese più servizio, 1 incrociatore e 2 cacciatorpediniere). La cosa, da tutti gli “Alti Gradi” delle Marine Militari delle grandi Potenze (tranne la Gran Bretagna..) non veniva creduta possibile a causa del comportamento dei siluri nei bassi fondali.

Naturalmente tutti gli addetti militari presenti in quel periodo a Roma furono interessatissimi all’azione, e c’è da credere che la relazione inoltrata dall’Addetto navale giapponese non sia rimasta in un cassetto del suo Ministero a prendere polvere.

È noto che, negli anni immediatamente successivi alla fine della Ia G.M. la stragrande maggioranza della popolazione statunitense professava sentimenti fortemente isolazionisti: Franklin D. Roosevelt venne eletto in base all’esplicita dichiarazione in campagna elettorale di tener fuori gli S.U. dalla guerra.

Ma le classi dirigenti statunitensi sapevano benissimo che tenersi fuori dal conflitto sarebbe stato non solo impossibile, ma anche nocivo per gli interessi statunitensi, per molte ragioni, e si mossero lungo due direttrici, dirette e indirette.

Venne mandato in Giappone un ufficiale con una vasta conoscenza dell’Oriente, il Com. Arthur H. McCollum (August 4, 1898 – April 1, 1976), il quale era nato a Nagasaki, parlava il giapponese ed era un profondo conoscitore del mondo asiatico.

Il Comandante stilò un documento, definito appunto “memorandum McCollum” in otto punti, che prevedevano:

A. Stabilire un accordo con la Gran Bretagna per l'utilizzo delle basi britanniche nel Pacifico, in particolare a Singapore.

B. Stabilire un accordo con i Paesi Bassi per l'utilizzo delle strutture di base e l'acquisizione di rifornimenti nelle Indie orientali olandesi.

C. Dare tutto l'aiuto possibile al governo cinese di Chang-Kai-Shek.

D. Inviare una divisione di incrociatori pesanti a lungo raggio in Oriente, Filippine o Singapore.

E. Inviare due divisioni di sommergibili in Oriente.

F. Mantenere la forza principale della flotta statunitense ora nel Pacifico in prossimità delle Isole Hawaii.

G. Insistere affinché gli olandesi si rifiutino di accogliere le richieste giapponesi di indebite concessioni economiche, in particolare il petrolio.

H. Mettere completamente sotto embargo tutto il commercio degli Stati Uniti con il Giappone, in collaborazione con un simile embargo imposto dall'Impero britannico.

Tutti questi punti vennero puntualmente soddisfatti.

Dal punto di vista diretto venne sostituito il Comandante della Flotta del Pacifico, l’Amm. Richardson, che si era strenuamente opposto al riposizionamento della flotta da San Diego a Honolulu, con l’Ammiraglio H. Kimmel mentre, nello stesso periodo, il comando delle forze di terra e delle forze aeree (l’aviazione era ancora sotto il comando dell’Esercito) venne affidato al Generale Short.

Tutta la storiografia statunitense si basa su fatti che Sinnet dimostra chiaramente essere falsi, in particolare che i servizi di informazione statunitensi non fossero in grado di intercettare e decrittare i codici giapponesi, mentre la documentazione raccolta dall’autore dimostra il contrario: inoltre sia l’Amm. Kimmel che il Gen. Short vennero sistematicamente tenuti all’oscuro degli importantissimi contenuti di queste intercettazioni.

Quando poi l’Amm. Kimmel, che era un ottimo professionista, e che sapeva che un eventuale assalto sarebbe venuto dal nord, come in effetti avvenne, organizzò una ricognizione in forze in quella direzione, venne “redarguito” da Washington con l’affermazione che “il governo statunitense non voleva creare provocazioni”.

Era infatti esplicita dichiarazione del governo statunitense (leggi: F.D.R.), alla luce delle crescenti tensioni: “Gli S.U. desiderano che il Giappone compia il primo atto diretto”.

Sempre da Washigton pervennero solo vaghi accenni sulla possibilità di eventuali “atti di sabotaggio” e di prendere “provvedimenti senza allarmare la popolazione”.

Pertanto le corazzate, tutte di vecchia concezione, perché costruite durante la Ia G.M., anche se successivamente rimodernate, ma del tutto inadatte ad una guerra moderna perché troppo lente e quindi incapaci di stare al passo con le nuove portaerei, rimasero tranquillamente ancorate in quello che a Honolulu veniva chiamato il “viale delle corazzate”.

Le portaerei invece, che l’episodio di Taranto prima e della Bismark poi avevano dimostrato essere le sole navi veramente importanti in un conflitto navale moderno, vennero su ordine di Washington allontanate con scusa varie da Pearl Harbor. “Ma dove sono le portaerei?” chiesero concitatamente per radio gli equipaggi degli aerei nipponici all’attacco su Pearl Harbor.

Da notare che già al 1939, in risposta sia alle violazioni giapponesi del “Trattato di Washington” (peraltro già ampiamente dimostratosi “carta straccia” per tutte le maggiori Potenze dell’epoca), sia al “Piano “Z” della Kriegsmarine, gli S.U. avevano impostato un piano di riarmo navale di entità colossale, e le vecchie corazzate costruite nella Ia G.M. sarebbero state presto sostituite delle nuovissime corazzate veloci classe “Iowa” il cui servizio proseguì addirittura sino alle Guerre del Golfo.

L’Amm. Isoroku Yamamoto, comandante della “Flotta combinata”, era un ottimo conoscitore degli Stati Uniti, e sapeva quindi perfettamente che una guerra prolungata del Giappone contro gli S.U. era improponibile, per cui ideò un piano alla “o la va, o la spacca”, mirante a infliggere alla U.S. Navy un colpo talmente duro da costringere gli americani a venire perlomeno a patti.

Viceversa, la segretezza con la quale i militari giapponesi circondavano le loro esercitazioni, condotte in isole remote lontane da sguardi indiscreti, cosa facilissima in Giappone, fece probabilmente sottostimare ai militari americani i danni che un attacco giapponese avrebbe potuto provocare, anche se, come detto, la segretezza nipponica, come quella germanica, veniva meno quando si trattava di comunicazioni radiofoniche.

Il resto è Storia.

Come afferma Stinnet “..può darsi che Roosevelt avesse ragione nel comportasi in questo modo…” (cit.).

Può essere questo libro riportato all’attualità? Penso proprio di si, ma lascio ogni ulteriore considerazione al lettore di questi brevi e incomplete note.


lunedì 12 settembre 2022

Il cippo di Posina, di Giorgio Madeddu, con una prefazione del Col. Mauro Scorzato


Prefazione

"Il Veneto e i Sardi"

di Mauro Scorzato


Difficile stabilire cosa sia nato in quei brutti (sia per le vicende che per la meteorologia) giorni della primavera del 1916 tra veneti ( in particolare vicentini) e i sardi. Si stavano compiendo gli ultimi sforzi della Strafe expedition, operazione che poi scopriremo non si è mai effettivamente chiamata “spedizione punitiva” bensì “Nach Po” ossia “al Po “ a designare l’obbiettivo finale della spedizione Vicenza e con essa la ferrovia che riforniva le armate del Carso, era già visibile alle truppe austro-ungariche. Ed ecco che quell’ultimo sforzo si infrange sulle Melette,ultime propaggini dell’altipiano di Asiago prima dell’agognata pianura. A difendere con successo quell’ultimo bastione, oltre alle truppe di “casa”, autoctone, gli alpini, c’è una brigata di gente che ha ben poco a che fare con gli altipiani, le montagne e il clima gelido: sono i sardi della “Sassari”. A quei tempi, poche persone si avventuravano sulle montagne e gli unici “meridionali” che quelle popolazioni avevano conosciuto prima della guerra erano i militi della Guardia di Finanza, che erano visti come fumo negli occhi. Erano considerati corrotti e donnaioli, capaci di trasformare ogni sequestro di merce di contrabbando in bottino e quindi spinti più dalla avidità di generi a buon mercato che dal senso del dovere; oltretutto incapaci di confrontarsi con i locali qualora dovesse sorgerne la necessità.

Anche le truppe che venivano fatte affluire sull’Altipiano nel 1915 non brillavano proprio per spirito combattivo, quantomeno rispetto alle truppe alpine.

Ma improvvisamente, quando tutto sembra perduto arrivano dei “meridionali” che del meridionale hanno poco: combattono con una ferocia da intimidire anche i bosniaci che si trovano di fronte, muoiono come le mosche e non si lamentano. Quando scendono a valle per i turni di riposo se ne stanno tra di loro cantando strane melodie e facendo stani giochi con le mani; chi fra loro avvicina le donne locali cerca più un calore familiare che non una torrida avventura, e aiuta al lavoro col bestiame se glielo chiedono.

No, decisamente sono diversi, anche se sono scuri allo stesso modo e non vengono capiti quando parlano fra di loro. I vicentini conoscono anche gli austro-ungarici; sono stati sudditi dell’Aquila Bicipite per circa 150 anni e sanno che i vecchi padroni non dimenticano e, soprattutto, non perdonano. Erano felici cittadini della Repubblica di Venezia e prosperavano prima dell'arrivo dei vecchi padroni. Ma all’arrivo di questi ultimi, col trattato di Campoformio, si sono ritrovati succubi della Lombardia, a cui gli austriaci attribuivano la massima importanza in quanto provvedeva i filati per tutto l’impero. Al Veneto era rimasto il compito di provvedere al sostentamento alimentare della Lombardia e questo anche a scapito del proprio. Con le rivolte del 1848-49 avevano fatto sputare pallini alle truppe di Radetzky, resistendo testardamente in assedi estenuati da parte di forze superiori sia in numero sia quanto a esperienza bellica e ne avevano ottenuto degna retribuzione: meno cibo e soprattutto niente istruzione, dal momento che i più indomiti combattenti si erano proprio dimostrati quegli studenti che sarebbero dovuti essere il nerbo della efficientissima burocrazia dell’Aquila Bicipite. Le uniche scuole ammesse erano quelle religiose, in cui si insegnava come prima materia la fedeltà al Sacro Romano Imperatore, Francesco Giuseppe.

Poi a partire dal dal 1861 le cose non erano migliorate granché, col clero che fomentava la rivolta contro i sovrani Savoia “apostati e massoni”, avendo buon gioco sul neonato Regno d’ Italia che aveva bisogno sia di soldati che di denari. Ma adesso sembrava che il Re avesse veramente mandato qualcuno che ci sapeva fare, non solo a combattere ma anche a costruire gallerie per le strade, cosa veramente difficile in montagna. E così ancora oggi , dopo più di cento anni da quei momenti , quel legame tra Veneti e Sardi non solo è rimasto, ma si è rinsaldato. Prova ne sia l’ammirazione, sentimento di cui i Veneti sono particolarmente sparagnini, verso i Sardi, specialmente quando vestono una uniforme.

In questo ambito, di condivisioni di un passato che moltissimi sentono rivivere ogni qual volta le vicende permettono a coloro che hanno valori comuni di riunirsi, si svolge la vicenda del cippo di Posina narrata dall’amico Madeddu.

Il riapparire di un cippo che riporta alla superficie eroi oramai, purtroppo, dimenticati e anonimi nella loro grandezza. Ragazzini appena ventenni (ma allora a vent’anni si era uomini), padri di famiglia provenienti da zone lontane se non geograficamente quanto meno culturalmente dalle montagne venete, appartenenti a unità non certo blasonate (tutti i reggimenti iniziano col due, a significare: formati con i riservisti che non avevano precedentemente svolto servizio) ma determinati a non “mollare”, a non farsi soverchiare dalle persone che avevano di fronte. Momenti di cui , insieme a tanti altri, abbiamo perso la memoria e non solo. Con la memoria abbiamo perso l’orgoglio di essere quello che siamo e quelli a cui ciò piace ne vanno fieri. Per chi ancora ha coscienza dei tempi in cui vive, lo squarcio nella storia che ci riporta alle vite di questi soldati genera un momento di forte riflessione, specialmente di questi tempi in cui lo scontro di civiltà ( ma qualcuno direbbe “di civiltà contro barbarie” trasponendo in un quadro ideologico il conflitto) che non sarebbe più dovuto esistere sta ritornando prepotentemente nelle nostre vite. La domanda egoista che ne scaturisce è: “Ma di gente così ne abbiamo ancora??”.



Il cippo di Posina
di Giorgio Madeddu

Alcuni giorni fa, dopo quasi tre anni, il ritorno a Posina (VI) paese del vicentino gemellato con Iglesias in virtù della partecipazione dei soldati – minatori sardi alla realizzazione delle 52 Gallerie sul Pasubio e alla guerra di mine sulla cima del conteso massiccio montuoso. In particolare, domenica 31 luglio si è partecipato alla tradizionale cerimonia in onore dei caduti della Valposina, conclusasi con la celebrazione della Messa e deposizione delle corone ai caduti italiani e austro ungarici nella chiesetta della Madonna del Monte Maio. 

Alla cerimonia hanno partecipato, tra gli altri, il labaro della sezione di Valli del Pasubio – Torrebelvicino dell’Istituto del Nastro Azzurro, fregiato di Medaglia d’Oro al Valore Militare. Conclusa la cerimonia, gli ospiti hanno preso parte al pranzo conviviale a base di prodotti tipici locali, tra essi i rinomati gnocchi di Posina. Chiacchierando con il sindaco del paese Adelio Cervo, si toccava l’argomento del recupero degli ex cimiteri di guerra, il sindaco ricordava un pezzo di cippo con dei nominativi, ritrovato pochi anni fa, durante i lavori di rifacimento degli argini del torrente Posina.

Il cippo si trovava certamente nel cimitero di militare di Posina di cui oggi non vi è più traccia. Subito dopo pranzo si è raggiunto il luogo dove si trova il cippo che risulta poggiato per terra e parzialmente inglobato nel muretto che corre lungo la strada che fiancheggia il torrente. Sul cippo, parzialmente danneggiato, sono visibili dieci cognomi, alcuni di essi non interamente leggibili. Alcune lettere poste alla base del cippo indicano l’esistenza di un undicesimo cognome, affianco a ciascuno cognome i numeri 18/10. Di cosa si tratta? 

Il presente contributo individua esattamente i nominativi dei caduti e ne rievoca il fatto d’armi che il 18 ottobre 1917 sul Monte Maio, ne determinò la morte. L’ordine di operazioni n. 1 del 16 maggio 1915, prevedeva lo schieramento della 1a Armata, al comando del Ten. Gen. Roberto Brusati, dal Passo dello Stelvio alla Valle del Cismon; la 1a Armata risultava originariamente ordinata in due Corpi d’Armata, il III° Corpo d’Armata al comando del Tenente Generale Vittorio Camerana e il V° Corpo d’Armata al comando del Tenente Generale Ottavio Zoppi. Nel mese di maggio 1916 il Tenente Generale Guglielmo Pecori Giraldi subentra nel comando della 1a Armata.

Compito preciso della 1a Armata era quello di “Costituire una barriera insormontabile per il nemico ed impedirgli ad ogni costo di sboccare in piano” con ordine perentorio di difesa ad oltranza sulle linee principali di resistenza che dovevano essere difese sino all’ultimo uomo. 


Dal 19 settembre 1917 il settore del Trentino afferente alla 1a Armata veniva riordinato in: – XXIX° Corpo d’Armata, con le divisioni 37a e 27a, al comando del Ten. Gen. De Albertis, dispiegato dalla sponda orientale del Lago di Garda alla Vallarsa; – V° Corpo d’Armata, con le divisioni 55a e 69a, al comando del Ten. Gen. Zoppi, schierato, dalla Vallarsa alla Val di Posina; – X° Corpo d’Armata, con le divisioni 32a e 9a, al comando del Ten. Gen. Bloise, che occupava la linea dalla Val Posina alla Val d’Astico; – XXVI° Corpo d’Armata con le divisioni 12a e 11a, al comando del Ten. Gen. Fabbri, dispiegato dalla Val d’Astico alla Val d’Assa; – XXII° Corpo d’Armata con le divisioni 57a e 2a, al comando del Ten. Gen. Gatti, impegnato nella linea dalla Val d’Assa alla Val Frenzela; – XX° Corpo d’Armata con le divisioni 29a e 52a, al comando del Ten. Gen. Ferrari schierato dalla Val Frenzela alla Valsugana. I tre Corpi d’Armata XX°, XXII° e XXVI° andarono a formare il ricostituito Comando Truppe Altipiani, disciolto dopo l’arresto della Strafexpedition. La Ia Armata poteva così contare su: – 122 battaglioni di cui 29 di alpini e 3 di bersaglieri; – 1483 pezzi di artiglieria di diverso calibro; – 17 squadriglie di aeroplani Per un totale di 12.000 ufficiali e 322.000 uomini di truppa. Di contro lo schieramento avversario era costituito da: – 56a Divisione Schutzen da cui dipendevano l’88a, 28a e 141a Brigate fanteria; – XIV° Corpo “Edelweiss”, costituito dall’8a Divisione Kaiserjäger e dalla 15a Brigata fanteria; – III° Corpo costituito dal Gruppo Vidossich e 19a e 6a Divisione; – 18a Divisione e Gruppo Schönner. Per i nostri scopi è utile descrivere anche l’ordinamento della 69a divisione incardinata nel V° Corpo d’Armata italiano, comandata dal Magg. Gen. Giovanni Croce, così costituita: – Brigata Piceno, 235° e 236° reggimenti fanteria, comandata dal Col. Brig. Battista Gagliardo; – Brigata Pallanza, 249° e 250° reggimenti fanteria, al comando del Brig. Gen. Giovan Battista De Angelis; – Battaglione alpini Monte Saccarello, (compagnie 107a, 115a, e 120a); – 9° Reparto d’assalto; – CCXXXV° Battaglione di Milizia Territoriale; – 11 compagnie mitragliatrici; – 31° reggimento artiglieria da campagna; – 2 batterie someggiate; – 1 batteria mortai da 149 – XVIII° Battaglione genio zappatori (20a, 44a, 50a compagnie) A disposizione del comando di settore anche il LXIX° Battaglione genio con la 113a, 120a e 160a compagnia. Fig. 2 – Posizionamento del V° e X° Corpo d’Armata e della 69a Divisione La notte del 18 ottobre 1917 il nemico si lanciava in tre successi attacchi sulla linea Monte Maio – Cavallaro, coinvolgendo la linea del X° Corpo d’Armata, respinto tornava all’attacco una quarta volta riuscendo, questa volata, ad infiltrarsi nella Selletta dei Roccioni di Monte Maio. 

L’immediato contrattacco eseguito dal 1° Battaglione alpini Monte Saccarello e dalla 7a compagnia del 249°, appartenenti al V° Corpo d’armata (69a divisione), chiamati a rincalzo, consentiva agli italiani di riprendere la Selletta e catturare 40 prigionieri, tra essi 3 ufficiali. Negli scontri cadeva sul campo anche il comandante della 7a compagnia del 249°. Gli scontri della mattina del 18 ottobre furono durissimi e spesso corpo a corpo, alcuni soldati italiani perirono sotto le baionette del nemico, altri, nonostante le soverchianti forze nemiche rifiutarono di arrendersi, finendo freddati dalle revolverate degli ufficiali nemici. 

La consegna della difesa ad oltranza delle linee veniva rispetta sino all’estremo sacrificio, consentendo agli italiani di respingere il nemico e riprendere i tratti perduti. Le salme dei caduti del 236° Reggimento della Brigata Piceno, del 249° della Brigata Pallanza e del Battaglione Monte Saccarello del 1° Reggimento alpini, furono portate a valle e sepolte a Posina. Anche il Comando Supremo, nel Bollettino n. 915 del 19 ottobre 1917, riferiva che: “Nella notte sul 18 lungo le fronti Tridentina e Carnica si ebbe un vivace risveglio di attività combattiva locale; l’azione nemica fu specialmente accanita contro la nostra linea tra la valle del Posina e quella del Rio Freddo, dove, dopo ripetuti attacchi in forze e parecchi concentramenti di fuoco riuscì all’ avversario di occupare un nostro posto avanzato a nord di Monte Majo e di irrompere in un altro ad est di Cagliari. Lo sloggiammo dal primo con energico contrattacco e lo ricacciammo col fuoco dal secondo.” In merito alla località Cagliari citata dal Bollettino, trattasi di un errore in quanto è da intendersi Monte dei Calgari e Calgari, località in comune di Arsiero, posta ad est del paese di Laghi, nella linea di Rio Freddo e Monte Maio. Per il fatto d’arme del Monte Maio del 18 ottobre 1917, le gesta di eroismo di ben sei caduti furono ricompensate con la Medaglia d’Argento al Valore Militare. Si presenta l’elenco dei caduti i cui nominativi sono ancora presenti sul cippo e quelli che presumibilmente sono andati perduti con la distruzione di parte di esso. 

lunedì 25 gennaio 2021

"LEVEL ZERO HEROES": COME CI VEDONO LE FORZE SPECIALI DEI MARINES recensione di Mauro Scorzato

Difficile trovare un libro che descriva, visto dal basso, ciò che tu hai vissuto dall’alto. Un libro che parli dei momenti e delle esperienze di chi ha usato dei mezzi che tu, distante centinaia di chilometri, senza averlo mai conosciuto e senza nemmeno avere l’idea di chi possa essere, gli hai messo a disposizione. Noi viviamo in un mondo di conoscenza diretta e lo vediamo oggi che la sorte di chi non è a nostro diretto contatto non vale nemmeno la nostra attenzione, per non dire la nostra preoccupazione. Il libro “Level zero heroes” è infatti la storia di una battaglia, vista dagli occhi di un JTAC (Joint Terminal Attack Controller) ovverossia di quella persona che guida la parte terminale di un attacco aereo, dirigendo il fuoco direttamente sull’obbiettivo. In particolare, l’autore è un JTAC che appartiene ad una unità di élite, i ricognitori del Corpo dei Marines o “Pathfinders”. 

La battaglia di cui si parla è la battaglia di Bala Murghab, una sperduta valle afghana nei pressi del confine col Turkmenistan ma con una caratteristica ben precisa. Si trova infatti su una delle principali arterie del traffico di stupefacenti dall’Afghanistan al Turkmenistan, una specie di autostrada “Modena-Brennero” dell’oppio. Pur trovandosi nel settore tenuto dal contingente spagnolo, Bala Murghab venne abbandonato dall‘ unità spagnola del genio che lo presidiava dopo alcuni attacchi e venne rioccupata l’anno seguente da una compagnia del Reggimento Lagunari “Serenissima” che, dopo un breve scontro, occupò il “Castello” (una costruzione che in passato aveva alloggiato la polizia di frontiera) con il supporto di unità americane. Sostituiti a loro volta, nella primavera del 2009 dai paracadutisti del Generale Castellano. Gli insorti che occupavano il villaggio e le valle vennero presto edotti del fatto che la musica era cambiata rispetto ai tempi della presenza iberica. Numerosissimi e accaniti scontri fecero sloggiare gli insorti dal villaggio ma fu soltanto con l’arrivo del 151° reggimento della brigata “SASSARI”, nel tardo autunno del 2009, che la situazione venne sbloccata. Il giorno dopo S.Stefano del 2010, iniziò l’operazione “Buongiorno”(notare l’ironico nome coniato per l'occasione dal V.comandante della Brigata) con una compagnia della 82^ Divisione aerotrasportata USA, una compagnia di fanti del 151° Sassari, e un distaccamento di forze speciale dei Marines (i Pathfinders appunto, oppure più tecnicamente MSOT 8222). Queste forze all’alba occuparono due alture denominate “Prius ” e “Pathfinder”, tagliando di fatto definitivamente la strada e precludendone ogni uso. Qui infatti inizia anche la trattazione dell’autore (a dir la verità inizia con la ricerca dei corpi di due paracadutisti americani affogati pochi giorni prima nel torrente Murghab). Per tutto il libro, Michael Golembesky non risparmia una cattiva parola per nessuno tranne forse per il Ten. Col. Francesco Bruno (Comandante del distaccamento del 151° Sassari) e pochi altri. La leadership del Colonnello americano in comando, che non viene mai citato per nome bensì con la sua sigla radio (callsign) viene letteralmente fatta a pezzi e criticata in ogni suo aspetto. Bisogna specificare, che come avevo già notato durante il mio lavoro al Quartier Generale di ISAF (il comando delle forze NATO in Afghanistan) dove ero il rappresentante del Comandante della regione Militare Ovest, a guida italiana (carica in quel periodo rivestita dal comandante della brigata “SASSARI”), Marines e paracadutisti della 82^ si possono vedere come il fumo negli occhi. L’autore critica la visione prudenziale nella gestione dell’operazione, che tendeva a ricercare i “danni collaterali 0” (zero vittime civili durante le operazioni), sistema che di fatto imbrigliava l’uso sia del fuoco terrestre che del fuoco aereo mettendo a serio repentaglio le vite dei nostri militari sul terreno. Per tre giorni infatti, ondate di insorti si erano scagliate senza successo contro le due alture cercando disperatamente di riacquistare la libertà di movimento. Circa 500 insorti si erano riversati su Bala Murghad anche dai settori contermini (specificatamente dal settore tedesco) e in alcuni momenti si era temuto di perdere il controllo delle alture; solo il fuoco aereo ci aveva permesso di mantenerne il possesso. Io rimasi al mio posto per 36 ore consecutive, convogliando su tutta quell’area ogni aereo che si potesse trovare a disposizione nell’Afghanistan da parte di qualsiasi nazione e l’autore descrive che uso aveva fatto dei mezzi che gli avevo così faticosamente messo a disposizione. Dopo 2 giorni di combattimento e gravissime perdite (l’autore ne cita una cinquantina circa, ma furono ben di più), gli insorti rinunciarono alla riconquista ma continuarono a infastidire i difensori con fuoco intermittente e colpi di mortaio sporadici. In sintesi è questo un libro che parla di un fatto d’armi che ci ha visti come comprimari ma che in Italia è stato completamente cancellato dagli annali, eliminandone ogni traccia quasi fosse una vergogna. I nostri alleati lo celebrano come forse la più grande vittoria su una fazione che, ben lungi dall’esprimere un partito, rappresenta in realtà il fior fiore del narcotraffico Afghano; anche se gli insorti vengono definiti Talebani. Guarda caso questo libro non è stato tradotto in italiano mentre altri dello stesso autore, sempre su Bala Murghab ma meno coinvolgenti la nostra presenza, hanno trovato una casa editrice che ha curato la versione italiana. Comunque buona lettura a chi è in grado di leggere l’inglese. 

Col. Mauro Scorzato E.I., ora in pensione [La foto in alto è di ale226, pubblicata su fai.informazione.it]

"Comandante", una recensione (2023) di Antonello Ruscazio del film di E. De Angelis

  Una recensione di Antonello Ruscazio " Comandante " film del 2023 diretto da Edoardo De Angelis                            ...