LA “STANCHEZZA IMPERIALE” secondo Dario Fabbri
fine dell'Imperialismo oppure imperialismo 2.0?
di Mauro Scorzato
Secondo Fabbri , e non solo secondo lui, l’impero americano o, altrimenti detta, “globalizzazione” sta giungendo alla fine. Non tanto per il sorgere di un altro impero alternativo che genererebbe la Limesiana “transizione egemonica” , quanto perché l’impero è “stanco”.
Una parte di esso, quello che giace lungo le coste degli Stati Uniti, si è resa improvvisamente conto che la gran parte del mondo a cui si è cercato di imporre il modello americano (o “occidentale”, che dir si voglia), non lo vuole, non lo accetta e anzi lo osteggia.
I valori che hanno guidato la globalizzazione rimangono estranei alla vita di quei popoli che ne hanno degli altri e che non ci pensano proprio a buttarli alle ortiche per dare spazio a modelli che sono in antitesi ai loro.
E così , rifiutando l’idea stessa che qualcuno non possa adottare quel mondo che loro hanno creato ad uso e consumo altrui, gli americano “costieri “ se ne fanno una colpa: sicuramente non sono riusciti a spiegare tutti i vantaggi di quelli che sono i modelli di sviluppo occidentali e questo fallimento è sicuramente colpa loro, degli americani colti. E questo genera depressione.
Al contrario, gli americani del centro, del Midwest, quelli che della creazione del modello hanno pagato il prezzo più caro, quella classe media che con le sue tasse mantiene l’industria degli armamenti e delle guerra, che con i suoi figli ne paga il prezzo in sangue e PTSD (Post Traumatic Stress Disorder), quelli che guardano desolati le loro industrie arrugginire per dare spazio a quelle importazioni che avrebbero generato una dipendenza perenne ai loro alleati, sono arrabbiati.
Il resto del mondo se ne frega di quanti figli essi abbiano sacrificati, di quanto benessere abbiano buttato per tenere dietro alle aspirazioni imperiali: non c’è niente da fare, non vogliono diventare Americani nonostante tutto e allora che se ne vadano a quel paese! Arridatece le nostre industrie, il nostro hamburger, il nostro vivere lontano da tutto il resto in piccole comunità dove d’inverno si gela e d’estate si arrostisce. E votano Trump.
Ma anche loro vanno in depressione, anzi, votano Trump proprio perché sono in depressione.
Dario Fabbri ci informa che un americano su tre è stato diagnosticato patologicamente depresso e questo effettivamente rappresenterebbe un dato che, riferito ad altri farebbe sorgere il dubbio che quanto a volontà di potenza, di mantenere il primato mondiale, di rappresentare il poliziotto del mondo e la guida, siamo proprio arrivati alla frutta, negli Stati Uniti.
Effettivamente l’analisi non fa una piega: andando a verificare quanto accade ora negli “States” i sintomi di quanto espresso da Fabbri si riscontrano tutti. La disaffezione verso le istituzioni, il fenomeno woke, l’aumento della violenza inconsulta, la difficoltà a reclutare militari per le Forze Armate a causa di carente forma fisica, dipendenza da psicofarmaci e precedenti penali.
È però andando alla storia degli Stati Uniti che una inquietante riflessione si affaccia. In effetti, gli Stati Uniti si “nutrono” di depressione come una neoplasia si nutre di zuccheri. Tutte le espansioni che hanno portato quella nazione a quello che vediamo oggi hanno avuto origine da lunghi periodi di depressione: per dirla in termini psichiatrici la “fase reattiva“ della sindrome ansioso-depressiva statunitense si è sempre estrinsecata, a volte non in modo immediato, in una espansione del modello uscito dalla crisi.
Così è stato alla fine della Guerra di Secessione, quando al termine del conflitto il Paese era ridotto in pessime condizioni soprattutto morali: crimine rampante, faide tra famiglie risvegliate dalla vittoria di un partito, malessere sociale sia nel Midwest che nelle grandi città costiere. Lo stato uscito dalla guerra sembrava non fosse “attrezzato” per affrontare queste sfide che un grande paese unito poneva.
Ma una costante riforma delle istituzioni e un ricucire la parte ideologica faceva si che in meno di vent’anni un Mc Kinley già ponesse le basi per il primo impero americano: la generazione che aveva difeso le fattorie dai razziatori e dagli sbandati della guerra civile, che aveva tenuto gli indiani lontani dai pascoli mentre i padri cadevano a Shiloh Church, ora si lanciava alla conquista della parte del mondo più vicina. Ricomposta non solo nel tessuto ma anche nell’ideologia arrivando così a presenziare nel Mediterraneo dopo aver dissolto la Spagna, con un Teddy Roosevelt (Theodore) pronto a dire all’onnipossente Europa “ci siamo anche noi”.
Possiamo affermare che i vantaggi di quella reazione si protrassero fino al primo Conflitto Mondiale, quando sazi delle prime conquiste, gli americani come gli europei di oggi si spostarono sull’economia. Ma dopo un po’, una trentina d’anni, nel 1929 arrivò un’altra depressione, la depressione con la “D” maiuscola, quella degli Hobos, delle file per mangiare, del lavorare per un tozzo di pane. Masse di depressi si aggiravano per il paese aspirando a una nuova vita dopo essere stati presi in giro dalla parte più deteriore dell’economia: la finanza. Ma anche qui un altro Roosevelt (FDR) innescò una reazione con il suo New Deal che porterà gli Stati Uniti ad affrontare il secondo conflitto mondiale nelle condizioni economico-industriali (anche se non militari, settore questo dove infatti si era fatta invece molta economia) che conosciamo. E da cui nasce l’impero di cui discutiamo oggi.
Ma non è finita, dopo circa trent’anni, che sembra essere il ciclo di “depressione reazione affermazione” , la sconfitta nella guerra del Vietnam fa precipitare un’altra volta il paese nella depressione: l’apparato industriale militare su cui si era costruito l’impero del primo dopoguerra crollava miseramente lasciando nella disperazione e nella depressione soprattutto politica gli interi Stati Uniti. Questa volta ci si impiega molto meno per uscire dalla depressione ed entrare nel Reaganismo, che rifiutando la guerra “by proxy “, impegna una sfida con l’URSS che alla fine la farà capitolare, mettendo così fine alla Guerra Fredda.
Oggi, dopo circa 35 anni da allora, l’impero sembra ricaduto nella depressione: una leadership inadeguata (mi scusi Fabbri se ancora parlo di leadership), una nazione arrancante e sempre più disunita, l’incapacità di assimilare le ultime ondate di migranti che sembrano più disgregare che unire il Paese, anche se le minoranze ispanofone hanno dimostrato uno spirito di sacrificio molto più grande delle minoranze afro-americane durante le ultime sfortunate guerre.
Sarà questa l’ultima grande depressione che metterà fine all’impero che abbiamo conosciuto fino ad oggi , quell’impero che scenderà a patti con altri imperi emergenti , accettando un ruolo seppur importante ma non più esclusivo e di fatto non più il dominatore globale? Azzardare un pronostico non sembra particolarmente agevole. Non penso si possa ancora escludere che, specialmente nel prossimo mandato presidenziale, possa riaccadere quel “colpo di reni “ che già nel passato ha spiazzato imperi molto più radicati nella realtà del tempo. Nel caso questa fosse la “depressione fatale” non mi sento, come fanno molti altri personaggi, di gioirne: già schiere di ex servitori si preparano a passare alla corte del futuro imperatore, giacché la caratteristica di questa generazione occidentale sembra essere la mancanza di aspirazioni, ma temo che -in tal caso- il passaggio non sarà indolore e non solo per chi dovrà lasciare il primato. Ricordiamoci che la prima cosa che fa un leone appena ha spodestato il vecchio capobranco è quella di ucciderne i cuccioli per far andare ancora in calore le leonesse e garantirsi una prole propria. E non dovrebbe passarci neppure per la testa che noi siamo le leonesse. [Mauro Scorzato]
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