giovedì 29 novembre 2018

"Generale Antonio Basso" di Mauro Scorzato


[ immagine Fotostock, fototeca gilardi]   

di Mauro Scorzato

         



Gli avvenimenti che in Sardegna seguirono l’8 settembre 1943 sono stati oramai estremamente chiari sotto il punto di vista delle cronache ma, inspiegabilmente, le polemiche innescate dalla sostanziale “tenuta” delle Forze Armate di stanza nell’isola hanno continuato a fervere ben oltre i tempi.
Se da un lato infatti le autorità militari dell’isola hanno evitato lo sfaldamento delle unità del Regio Esercito, che ha caratterizzato l’8 settembre quasi ovunque nella penisola e in molte zone d’oltremare, dall’altro tali autorità sono state accusate di non aver saputo gestire tale saldezza spingendosi a porre una seria minaccia alle truppe tedesche che si trovavano sull’isola.
La contrapposizione tra storici “militari” e storici “militanti” si impernia sulla figura del Gen. Basso, comandante delle Regie Forze Armate (ancorchè generale dell’Esercito, aveva giurisdizione anche sulla Regia Marina e Regia Aeronautica, nonché commissario civile per l’intera regione) che permise la ritirata della 90^ Panzergranadieren Division dalla Sardegna alla Corsica senza imbastire quella battaglia di “annientamento” che il Gen. Roatta,( che si era prudentemente ridispiegato a Brindisi al seguito del resto dello Stato Maggiore) con la “memoria 44” presupponeva. 


Purtroppo l’arte militare insegna che una battaglia di annientamento può essere condotta o contro forze isolate le cui capacità di combattimento siano state già notevolmente compromesse o contro forze su cui si abbia una soverchiante superiorità: ed è su questa seconda fattispecie che gli storici “militanti” criticano l’operato di Basso. Con calcoli più di natura ragionieresca, ritengono che il rapporto di 130.000 italiani contro 30.000 (scarsi) tedeschi sarebbe stato sufficiente a garantire una sfolgorante vittoria da esibire ai nuovi alleati così come la novella Giuditta (il gen. Basso) avrebbe esibito la testa di Oloferne, impersonato dal il Gen. Lungershausen, comandante della 90^. Purtroppo il calcolo dei rapporti di forza in un combattimento non è esercizio da Istituto Tecnico Commerciale e richiede capacità di analisi ben superiori alla logica degli “8 milioni di baionette” che dai tempi delle Termopili non sono mai state sinonimo di vittoria. Se, infatti, da un lato il numero delle bocche da fuoco degli italiani era molto superiore, la loro mobilità era di fatto risibile ma, fattore ben più grave, non si disponeva del numero di autocarri per il trasporto delle munizioni nei luoghi dove queste bocche da fuoco avrebbero dovuto essere rischierate. Per i mezzi corazzati la situazione era ancora più seria: 4 battaglioni carri M e i Somua 35 (preda bellica dei francesi con ridotte disponibilità di pezzi di ricambio) non potevano certamente tenere testa ai ai panzer IV e simili corazzati tedeschi né per caratteristiche tecniche né (e soprattutto) per addestramento del personale: si deve tenere presente che nella parte finale del conflitto i carristi tedeschi ritenevano accettabile in combattimento 1 contro dodici contro carri russi e americani.
Il supporto aereo di Basso era limitato a circa 4 caccia bombardieri con bombe da 50 kg, mentre era molto probabile che per evitare l’annientamento della 90^ Kesserling (comandante delle forze tedesche in Italia) avrebbe reimpiegato i Dornier con bombe a guida terminale che tanto danno avevano fatto alla flotta italiana affondando la “Roma” del “Vivaldi” e il “Da Noli” .

Ma quello per cui Basso aveva i più seri motivi di preoccupazione era il “force multiplier” per antonomasia: il morale delle forze. Il fatto che le unità del Regio Esercito presenti in Sardegna non si siano sbandate come la maggior parte di quelle dispiegate nel continente, non sta a significare che lo sbigottimento e l’incertezza non si fossero diffusi nelle truppe: per quanto riguarda la Div. “Nembo” la defezione del battaglione Rizzatti non era stata un episodio sporadico ma una presa di posizione in una furibonda diatriba su come la divisione si dovesse comportare nel frangente; il battaglione Rizzatti era semplicemente il reparto dove tutti i militari erano d’accordo di schierarsi con i tedeschi, ma tale opinione era molto diffusa, sebbene non prevalente, anche in altri reparti della Divisione. 


Il Ten. Col. Bechi Luserna, Capo di Stato Maggiore, era stato infatti inviato dal Comandante Gen. Ronco (dopo che il suo tentativo era miseramente fallito) a dissuadere i disertori proprio per il fatto che erano arcinote a tutti le posizioni fortemente critiche del Bechi Luserna nei confronti degli alti gradi dell’esercito, tanto lo stesso aveva richiesto il passaggio della Divisione dall’Esercito alla Regia Aeronautica (arma molto più “fascista”) per por fine alle miserevoli condizioni in cui erano mantenute le truppe. Anche buona parte dell’artiglieria costiera e contraerea erano nelle mani della Milizia Volontaria, inquadrati da ufficiali di provata fede fascista che a posteriori oggi sappiamo essersi comportati in maniera fedele al nuovo regime (aprirono infatti il fuoco contro i tedeschi alla Maddalena), ma al tempo fornivano limitate garanzie, anzi per qualche tempo si è temuto una rivolta di queste unità. 


Certamente era da concordare con il Spanu Satta che descriveva Basso come un “diligente burocrate meridionale militare attento, scrupoloso e anche intelligente, ma al quale non si poteva ne’ si doveva chiedere di più di quanto potesse dare” ma altrettanto si doveva fare con le truppe ai suoi ordini: infatti a fronte di qualche comandante sicuramente di esperienza e ben motivato (per fare alcuni nomi il Ten.Col. Sardus Fontana e il Magg. Motzo, già noti militari dell’eroica brigata “Sassari”), la risposta al combattimento della maggior parte delle sue forze, specialmente in caso di gravi perdite, come inevitabilmente sarebbe stato, era tutta da provare. 
Ma probabilmente Basso provava quella sensazione di isolamento che tanto grava sui comandanti nei gravi momenti: la sostanziale latitanza della catena di comando, il dover sopportare da solo l’ipotesi di un eventuale fallimento in uno scontro i cui esiti erano tutt’altro che scontati probabilmente era qualcosa di più di quanto potesse dare, dopo tutto 3000 anni di filosofia militare da Sun Tzu a Liddell Hart passando per Von Clausewitz non hanno dubbi sul metallo da impiegare per costruire ponti al nemico che fugge.
Ne’ poteva immaginare il Basso che nel futuro un gruppo di intellettuali avrebbe provato il profondo rincrescimento per non aver nessuna strage nazifascista da commemorare sul territorio della Sardegna e i pochi morti della lotta di liberazione fossero sostanzialmente militari, per i quali, fino a poco tempo fa poca pena ci si poteva dare: il sacrificio della Div. “Acqui” a Cefalonia con 3000 morti circa viene tutt’ora messa in seconda fila nelle commemorazioni del 25 Aprile.

Sul piano personale però Basso pagò molto, prima con l’arresto da parte dei tedeschi delle 2 figlie e la deportazione in Germania del genero, nonché con due anni di custodia cautelare in attesa di essere assolto dall’accusa di non aver eseguito gli ordini di attaccare i tedeschi: una corte militare che forse aveva molto ben chiara la situazione decise che nel comportamento di Basso non fossero riscontrabili estremi di reato.

Chi scrive non può definirsi uno studioso della storia della Resistenza, ma per estrazione familiare è venuto a contatto con gli ordini dei CLN (Comitato di Liberazione Nazionale) del Basso Veneto: gli ordini di tali comitati imponevano lo stesso comportamento tenuto dal Gen. Basso: lasciar passare i tedeschi in ritirata limitandosi ad azioni offensive qualora questi cercassero di sabotare linee di comunicazione. Purtroppo la contravvenzione a tali disposizioni, generalmente da parte di partigiani improvvisati alla ricerca di facile gloria, portarono a gravissime rappresaglie di cui si studia ancora oggi.                                            

                                    
           

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