[ immagine Fotostock, fototeca gilardi]
di Mauro Scorzato
Gli avvenimenti che in
Sardegna seguirono l’8 settembre 1943 sono stati oramai estremamente chiari
sotto il punto di vista delle cronache ma, inspiegabilmente, le polemiche
innescate dalla sostanziale “tenuta” delle Forze Armate di stanza nell’isola
hanno continuato a fervere ben oltre i tempi.
Se da un lato infatti le
autorità militari dell’isola hanno evitato lo sfaldamento delle unità del Regio
Esercito, che ha caratterizzato l’8 settembre quasi ovunque nella penisola e in
molte zone d’oltremare, dall’altro tali autorità sono state accusate di non
aver saputo gestire tale saldezza spingendosi a porre una seria minaccia alle
truppe tedesche che si trovavano sull’isola.
La contrapposizione tra
storici “militari” e storici “militanti” si impernia sulla figura del Gen.
Basso, comandante delle Regie Forze Armate (ancorchè generale dell’Esercito,
aveva giurisdizione anche sulla Regia Marina e Regia Aeronautica, nonché
commissario civile per l’intera regione) che permise la ritirata della 90^
Panzergranadieren Division dalla Sardegna alla Corsica senza imbastire quella
battaglia di “annientamento” che il Gen. Roatta,( che si era prudentemente
ridispiegato a Brindisi al seguito del resto dello Stato Maggiore) con la
“memoria 44”
presupponeva.
Purtroppo l’arte militare
insegna che una battaglia di annientamento può essere condotta o contro forze
isolate le cui capacità di combattimento siano state già notevolmente
compromesse o contro forze su cui si abbia una soverchiante superiorità: ed è
su questa seconda fattispecie che gli storici “militanti” criticano l’operato
di Basso. Con calcoli più di natura ragionieresca, ritengono che il rapporto di
130.000 italiani contro 30.000 (scarsi) tedeschi sarebbe stato sufficiente a
garantire una sfolgorante vittoria da esibire ai nuovi alleati così come la
novella Giuditta (il gen. Basso) avrebbe esibito la testa di Oloferne,
impersonato dal il Gen. Lungershausen, comandante della 90^. Purtroppo il
calcolo dei rapporti di forza in un combattimento non è esercizio da Istituto Tecnico
Commerciale e richiede capacità di analisi ben superiori alla logica degli “8
milioni di baionette” che dai tempi delle Termopili non sono mai state sinonimo
di vittoria. Se, infatti, da un lato il numero delle bocche da fuoco degli
italiani era molto superiore, la loro mobilità era di fatto risibile ma,
fattore ben più grave, non si disponeva del numero di autocarri per il
trasporto delle munizioni nei luoghi dove queste bocche da fuoco avrebbero
dovuto essere rischierate. Per i mezzi corazzati la situazione era ancora più
seria: 4 battaglioni carri M e i Somua 35 (preda bellica dei francesi con
ridotte disponibilità di pezzi di ricambio) non potevano certamente tenere
testa ai ai panzer IV e simili corazzati tedeschi né per caratteristiche tecniche
né (e soprattutto) per addestramento del personale: si deve tenere presente che
nella parte finale del conflitto i carristi tedeschi ritenevano accettabile in
combattimento 1 contro dodici contro carri russi e americani.
Il supporto aereo di Basso
era limitato a circa 4 caccia bombardieri con bombe da 50 kg , mentre era molto
probabile che per evitare l’annientamento della 90^ Kesserling (comandante
delle forze tedesche in Italia) avrebbe reimpiegato i Dornier con bombe a guida
terminale che tanto danno avevano fatto alla flotta italiana affondando la
“Roma” del “Vivaldi” e il “Da Noli” .
Ma quello per cui Basso
aveva i più seri motivi di preoccupazione era il “force multiplier” per
antonomasia: il morale delle forze. Il fatto che le unità del Regio Esercito
presenti in Sardegna non si siano sbandate come la maggior parte di quelle
dispiegate nel continente, non sta a significare che lo sbigottimento e
l’incertezza non si fossero diffusi nelle truppe: per quanto riguarda la Div. “Nembo” la defezione del
battaglione Rizzatti non era stata un episodio sporadico ma una presa di
posizione in una furibonda diatriba su come la divisione si dovesse comportare
nel frangente; il battaglione Rizzatti era semplicemente il reparto dove tutti
i militari erano d’accordo di schierarsi con i tedeschi, ma tale opinione era
molto diffusa, sebbene non prevalente, anche in altri reparti della Divisione.
Il Ten. Col. Bechi
Luserna, Capo di Stato Maggiore, era stato infatti inviato dal Comandante Gen.
Ronco (dopo che il suo tentativo era miseramente fallito) a dissuadere i
disertori proprio per il fatto che erano arcinote a tutti le posizioni
fortemente critiche del Bechi Luserna nei confronti degli alti gradi
dell’esercito, tanto lo stesso aveva richiesto il passaggio della Divisione
dall’Esercito alla Regia Aeronautica (arma molto più “fascista”) per por fine
alle miserevoli condizioni in cui erano mantenute le truppe. Anche buona parte
dell’artiglieria costiera e contraerea erano nelle mani della Milizia
Volontaria, inquadrati da ufficiali di provata fede fascista che a posteriori
oggi sappiamo essersi comportati in maniera fedele al nuovo regime (aprirono infatti
il fuoco contro i tedeschi alla Maddalena), ma al tempo fornivano limitate
garanzie, anzi per qualche tempo si è temuto una rivolta di queste unità.
Certamente era da
concordare con il Spanu Satta che descriveva Basso come un “diligente burocrate
meridionale militare attento, scrupoloso e anche intelligente, ma al quale non
si poteva ne’ si doveva chiedere di più di quanto potesse dare” ma altrettanto
si doveva fare con le truppe ai suoi ordini: infatti a fronte di qualche
comandante sicuramente di esperienza e ben motivato (per fare alcuni nomi il
Ten.Col. Sardus Fontana e il Magg. Motzo, già noti militari dell’eroica brigata
“Sassari”), la risposta al combattimento della maggior parte delle sue forze,
specialmente in caso di gravi perdite, come inevitabilmente sarebbe stato, era
tutta da provare.
Ma probabilmente Basso
provava quella sensazione di isolamento che tanto grava sui comandanti nei
gravi momenti: la sostanziale latitanza della catena di comando, il dover
sopportare da solo l’ipotesi di un eventuale fallimento in uno scontro i cui
esiti erano tutt’altro che scontati probabilmente era qualcosa di più di quanto
potesse dare, dopo tutto 3000 anni di filosofia militare da Sun Tzu a Liddell
Hart passando per Von Clausewitz non hanno dubbi sul metallo da impiegare per
costruire ponti al nemico che fugge.
Ne’ poteva immaginare il
Basso che nel futuro un gruppo di intellettuali avrebbe provato il profondo
rincrescimento per non aver nessuna strage nazifascista da commemorare sul
territorio della Sardegna e i pochi morti della lotta di liberazione fossero
sostanzialmente militari, per i quali, fino a poco tempo fa poca pena ci si
poteva dare: il sacrificio della Div. “Acqui” a Cefalonia con 3000 morti circa
viene tutt’ora messa in seconda fila nelle commemorazioni del 25 Aprile.
Sul piano personale però
Basso pagò molto, prima con l’arresto da parte dei tedeschi delle 2 figlie e la
deportazione in Germania del genero, nonché con due anni di custodia cautelare
in attesa di essere assolto dall’accusa di non aver eseguito gli ordini di
attaccare i tedeschi: una corte militare che forse aveva molto ben chiara la
situazione decise che nel comportamento di Basso non fossero riscontrabili
estremi di reato.
Chi scrive non può
definirsi uno studioso della storia della Resistenza, ma per estrazione
familiare è venuto a contatto con gli ordini dei CLN (Comitato di Liberazione
Nazionale) del Basso Veneto: gli ordini di tali comitati imponevano lo stesso
comportamento tenuto dal Gen. Basso: lasciar passare i tedeschi in ritirata
limitandosi ad azioni offensive qualora questi cercassero di sabotare linee di
comunicazione. Purtroppo la contravvenzione a tali disposizioni, generalmente
da parte di partigiani improvvisati alla ricerca di facile gloria, portarono a
gravissime rappresaglie di cui si studia ancora oggi.
Nessun commento:
Posta un commento