giovedì 22 novembre 2018

SULLA RITIRATA DOPO CAPORETTO recensione di Mauro Scorzato ("La battaglia dei Generali", Paolo Gaspari, 2013)


LA BATTAGLIA DEI GENERALI  di Paolo Gaspari 
Da Codroipo a Flambro il 30 ottobre 1917

Recensione di Mauro Scorzato

Il libro di Gaspari tratta di una parte poco conosciuta della 1^ Guerra Mondiale sul fronte italiano ovverossia dei combattimenti che seguirono lo sfondamento sulla zona di Caporetto fino al consolidamento sulle sponde del Piave: l’opera, in particolare tratta di quanto accaduto tra Udine e il fiume Tagliamento. Di questa parte della Grande Guerra, che di solito viene inglobata nella dizione “la disfatta di Caporetto”, di cui, di solito, si conosce a malapena la battaglia di Pozzuolo del Friuli dove la Cavalleria italiana si immolò nella omonima cittadina friulana caricando furiosamente alla sciabola le truppe austro-ungariche per permettere alla 3^ Armata si superare il fiume Tagliamento e ripiegare quindi sul Piave. Quasi contemporaneamente, presso Codroipo altre unità dell’esercito tra cui la Brigata Sassari, contendevano alle migliori unità tedesche, i granatieri del Wurtemberg, il possesso del centro abitato per permettere lo sfruttamento dei ponti meridionali sul succitato fiume alle truppe in ritirata prima e poi permettere il brillamento di tali ponti al Genio, negandone quindi l’agibilità al nemico.
In questi episodi il Gaspari individua per la prima volta ufficiali di alto grado che si battono fianco a fianco con i loro soldati dividendone le armi e munizioni e condividendone le fatiche e i sacrifici e non solo: un intenso lavoro di archivio con cui l’autori non ha semplicemente descritto una serie di scontri tra opposte formazioni ma ha anche dipinto nei particolari gli ufficiali che ne prendevano parte, fornendone dettagli biografici, abilità e debolezze, comportamenti eroici o codardi. Per la prima volta, lo stereotipo dell’ufficiale lontano e cinico al limite delle psicopatia, cede il passo a una figura ben delineata nel suo passato, descritta nei suoi comportamenti e criticata con riferimenti a fatti ben precisi: non tutti ne escono bene, ma comunque la discussione rimane aperta (perlo meno ai competenti e onesti) e non vi è alcuna condanna preconcetta.
Per analizzare compiutamente le circostanze descritte dall’opera dobbiamo purtroppo fare riferimento alla “Tattica”, branca dell’arte militare che si occupa della gestione delle battaglia, secondo cui la manovra offensiva si compone delle seguenti fasi: “occupazione delle basi di partenza”, “attacco”, “rottura delle linee difensive” e “annientamento”. Se si consuma quest’ultima fase la guerra è da considerarsi terminata: per evitarlo, il difensore (noi italiani) conduce un tipo di battaglia che si chiama “manovra in ritirata”( la più difficile in assoluto) in cui sacrificando una parte delle sue forze cerca di conservarne il “grosso” per riorganizzarsi e ripassare all’offensiva. Se il “grosso” si sottrae all’”annientamento” la manovra in ritirata deve considerarsi un successo. Questi pochi, basilari concetti di Tattica sono certamente alla base della comprensione del libro, per cui, altrimenti, ordini che portarono al sacrificio di alcune unità, sembrerebbero destituiti di qualsiasi fondamento di logica. 
Per quanto riguardo lo svolgimento minuto degli scontri, il Gaspari individua nella enorme disponibilità di mitragliatrici leggere delle “Truppen” il fattore decisivo: il reggimento tedesco disponeva di 120 mitragliatrici leggere (quindi estremamente mobili) contro le 12 mitragliatrici pesanti (quindi vincolate al trasporto da soma) di un reggimento italiano: tenendo conto che le truppe italiane erano già reduci da altri scontri e farraginose ritirate, quasi mai l’organico era completo: l’enorme volume di fuoco manovrato accortamente sul terreno aveva sempre e comunque la meglio sulle generose ma scarsamente equipaggiate di armi automatiche truppe italiane. Purtroppo non viene messo nella dovuta evidenza che tutte le 120 mitragliatrici tedesca sparavano sempre, con un consumo notevole di munizioni costantemente disponibili mentre il filo conduttore da parte italiana era la spasmodica ricerca di munizioni che venivano quasi sempre trovate spogliando altri reparti che si ritiravano: nella narrazione comunque molto dettagliata non c’è un solo episodio di scontri in cui un reparto italiano viene rifornito dalle retrovie, mentre viene riportato che un ufficiale comandante di un reparto mitraglieri preso prigioniero dopo aver fatto distruggere le armi prive di munizioni vede i tedeschi fermi, con il posto comando installato, che ricevevano rifornimenti: forse il trascinarsi questa enorme quantità di munizioni avrà rallentato la progressione, ma sicuramente ha permesso di prevalere in diversi scontri in cui, in caso contrario la progressione sarebbe stata arrestata. Al contrario a Codroipo, da parte italiana, l’arrivo di un treno con viveri e munizioni viene usato come pietosa bugia per galvanizzare il morale dei difensori: eppure le linee di rifornimento germaniche si allungavano ad una velocità mai provata prima nella guerra, mentre le truppe italiane si avvicinavano sempre di più ai loro magazzini territoriali. Da altre fonti si apprende che in quel periodo alcuni autieri del Corpo dei trasporti tedesco venivano decorati per l’enorme sforzo di mantenere il flusso dei rifornimenti, guidando anche per 30 ore di seguito in condizioni non certamente paragonabili ai camionisti di oggi. Al contrario, i carrettieri e gli autisti di parte italiana vengono mostrati dal Gaspari come costantemente proni a sbandarsi, creando problemi al movimento delle unità da combattimento una volta abbandonati i mezzi sulla strada, servendosi dei traini più per fuggire celermente che per portare in salvo i materiali; mentre la truppa dei reparti combattenti viene mantenuta nei ranghi da con metodi decisi (e a volte brutali) dagli ufficiali, ottenendo comunque risultati accettabili contro le forze tedesche ogni qual volta lo spirito dei gradi superiore si manteneva, gli addetti ai rifornimenti italiani sembrano inesorabilmente destinati allo sbandamento, privi di qualsiasi guida o direzione, con un'unica preoccupazione: la propria incolumità. Ma non avevano costoro una catena gerarchica ? Degli ufficiali che ne fossero responsabili? Certamente il Corpo degli ufficiali di Intendenza esisteva, ma sicuramente non aveva subito la selezione che da una parte il fuoco e dall’altra il Cadorna avevano effettuato sulla generazione degli ufficiali di Arma base. Da parte italiana gli Stati Maggiori, che per i non iniziati sono quella organizzazione di comando che deve supportare l’attività decisionale del Comandante, erano piuttosto composti da ufficiali che avevano influenti amicizie e che preferivano rimanere distanti dai rischi del Comando (e del piombo austro-ungarico).
Una delle ragioni del disastro di Caporetto, che ritroveremo in seguito in tante altre battaglie un cui vedremo protagonisti gli italiani, è la differente concezione dell’azione di comando tra i contendenti: per i tedeschi il Comandante è il supremo coordinatore dell’azione del suo Stato Maggiore, equilibratore di sforzi tra parte combattente e parte di supporto al fine di ottenere i suoi fini strategici (che ha oltremodo chiari e incontrovertibili) mentre per gli italiani prevale la visione messianica del Comando: il Comandante è l’uomo investito da Dio di tutti i poteri per condurre alla vittoria, ogni rovescio è la prova della revoca dell’approvazione divina e gli Stati Maggiori si devono porsi prontamente in salvo per servire il prossimo inviato dalla Provvidenza (i fini strategici si decidono strada facendo).
Infatti chi si occupa in modo meno sporadico di storia militare avrà notato che ben raramente le truppe italiane sono state sconfitte sul campo: la crisi nella maggior parte delle battaglie nasceva sempre dalla mancata alimentazione dello sforzo, dalle carenza di ordini, dal silenzio e dall’inerzia delle retrovie, supporto di fuoco e artiglieria comprese. Il gran numero di prigionieri deriva infatti dalla reale mancata possibilità di proseguire la lotta: nelle piccole unità, con meno esigenze logistiche o più marcata autonomia e dove l’esempio del Comandante poteva facilmente raggiungere ogni membro (vedasi alpini o arditi, ma anche le bande irregolari della guerra d’Africa nel secondo conflitto) ciò era molto meno sentito.
In ogni caso si deve dare atto che, nonostante la farraginosa gestione e alcune sciagurate decisioni, la disparità di forze nonché del morale delle stesse, come ci fa notare il Gaspari nella fase finale dell’opera, la manovra in ritirata si può dire completamente riuscita: il “grosso” delle nostre forze ( la 3^ Armata e buona parte della 2^) riuscì ad attraversare il Tagliamento frustrando il tentativo austro-tedesco di tagliare la ritirata da Nord e dieci giorni dopo, sul Piave gli italiani fermarono definitivamente quell’avversario (sempre così fornito di mitragliatrici).
Ma è da considerarsi una vittoria?? Di fronte a questa domanda non può non sovvenirmi un vecchio film con Albero Sordi e David Niven, “i due Nemici” ambientato nella campagna d’Africa nel ’42 dove il Cap. Blasi (Sordi) critica gli inglesi con il prigioniero Magg. Richardson (Niven) dicendo che gli Inglesi erano stati sconfitti a Dunkerque e non avevano per niente fantasia. La risposta di Niven fu: “Abbiamo abbastanza fantasia da considerare Dunkerque una vittoria”. Se dunque il frettoloso abbandono da parte delle forze anglo-francesi della Francia può essere considerato una vittoria dalla limitata fantasia britannica, la illimitata fantasia italica può sicuramente riqualificare più positivamente quanto accaduto tra Udine e il Tagliamento, che tutto fu tranne che una “rotta”.

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