Diario
di Giovanni Sardu, militare “prigioniero” dei tedeschi nel
1944-45
di Antonello Angioni
Tra
i meriti da ascrivere a Pietro Macchione, editore anticonformista e
contro-tendenza, vi è sicuramente quello della recente pubblicazione
del Diario di Giovanni Sardu, sotto ufficiale della Regia Marina
Militare Italiana durante la seconda guerra mondiale. L’opera,
curata da Angelo Abis, fornisce un quadro storiografico sulla
condizione (non solo politica ma anche, e forse soprattutto, sociale
e umana) degli Internati Militari Italiani (IMI): i militari italiani
catturati e fatti prigionieri dagli ex alleati tedeschi, dopo l’8
settembre del 1943, nei diversi fronti di guerra (la Francia, i
Balcani e la stessa Italia) e trasferiti in Germania per essere
internati nei lager.
Va
detto che i vertici tedeschi avevano da tempo messo in conto una
possibile defezione italiana (ci sono documenti fin dal 28 luglio
1943) per cui, appena ebbero conferma dei loro sospetti, poterono
attuare contromisure tempestive per invadere la penisola, assumerne
il controllo e sfruttarne uomini e mezzi al fine di proseguire la
guerra da soli. In pochi giorni disarmarono e catturarono circa
1.007.000 militari italiani su un totale di circa 2.000.000 sotto le
armi. Ove si consideri che quasi 700.000 soldati erano già stati
catturati da inglesi, francesi e americani prima dell’Armistizio,
ne deriva che, nell’autunno del 1943, quasi l’intero esercito
italiano era stato fatto prigioniero.
A
partire dall’Armistizio, due eserciti stranieri (quello tedesco e
quello anglo-americano) si scontrarono sul territorio dell’Italia
che perse unità e autonomia politica e decisionale. In particolare,
l’occupazione nazista si rivelò violenta e immediata mentre le
disposizioni impartite alle divisioni sabaude furono confuse e
tardive. Molti militari sbandati contribuirono a dare sostanza alle
formazioni partigiane che, proprio in quei giorni, si stavano
formando.
Nel
periodo che va dal settembre 1943 (Armistizio) agli inizi del 1945,
circa 800.000 italiani (militari e civili) vennero fatti prigionieri
e, dopo interminabili viaggi, trasferiti su dei carri bestiame nel
territorio del Terzo Reich. Gli uomini catturati dalle truppe naziste
furono considerati “prigionieri di guerra” sino a quando, il 20
settembre 1943, Hitler impose che il gruppo più numeroso, formato da
circa 650.000 militari, fosse classificato come Italienische
Militarinternierte
vale a dire Internati Militari Italiani. Il cambio di condizione
giuridica fu ispirato dalla volontà di punire il “tradimento”
dell’8 settembre, eludere i controlli della Croce Rossa
Internazionale e soprattutto aggirare le limitazioni imposte dalla
Convenzione di Ginevra che vieta l’utilizzo dei prigionieri di
guerra nell’industria bellica (settore nel quale in Germania, fin
dall’inizio delle ostilità, era esploso un crescente fabbisogno di
manodopera). Si era in presenza di un trattamento deteriore rispetto
a quello riservato ai prigionieri anglo-americani e francesi che
potevano godere delle tutele previste dal diritto internazionale.
La
singolare vicenda degli IMI ha inizio l’8 settembre 1943, giorno in
cui il generale Pietro Badoglio, capo del governo dopo la
destituzione di Mussolini, annuncia l’armistizio con gli
anglo-americani firmato il 3 settembre a Cassibile: gli Stati che,
sino al giorno prima, erano i nostri nemici diventano gli “alleati”
e viceversa. La reazione della Germania nazista fu immediata e le
truppe italiane, prive di ordini precisi, diventarono facile preda
dell’ex alleato. Costretti a consegnare le armi, migliaia di
soldati furono posti di fronte all’alternativa di continuare a
collaborare con l’esercito tedesco o di finire internati nei lager.
La maggior parte dirà “no” a qualsiasi ipotesi di adesione al
progetto nazista e trascorrerà circa venti mesi di internamento e
lavoro coatto, in condizioni disumane, patendo la fame e il freddo.
Tra essi, circa 50.000 perderanno la vita nel corso della “prigionia”
per malattie, denutrizione, esecuzioni e bombardamenti. Considerati
traditori della comune causa bellica, i militari italiani furono
sottoposti a sopraffazioni e angherie tra le più efferate che i
tedeschi abbiano posto in essere contro i prigionieri di guerra.
Come
dei veri e propri “schiavi”, gli internati italiani vennero
sfruttati nelle miniere, presso le fabbriche di armamenti o
nell’industria pesante e siderurgica, fino allo stremo delle loro
forze. Spesso, oltre che per fame, morivano proprio per collasso
cardiaco. Gli IMI subirono più di tutti i soprusi e le violenze da
parte del personale di guardia della Wehrmacht (le forze armate
tedesche) e dei dipendenti delle varie aziende dove lavoravano. In
tal senso giocò un ruolo fondamentale la richiesta, diffusa a ogni
livello istituzionale, di una rappresaglia per l’uscita dell’Italia
dalla guerra. Gli italiani venivano presentati come “traditori”.
Va
anche detto che un numero imprecisato di prigionieri italiani (tra i
13.000 e i 20.000) morì durante il trasporto dalle isole dell’Egeo
al continente greco in quanto le navi vennero affondate
dall’aviazione anglo-americana. Tra l’altro, nell’Egeo il
comportamento degli alti ufficiali non fu sempre eroico. Ad esempio,
il generale Angelico Carta di Riola Sardo (classe 1886), comandante a
Creta della 51.ma Divisione di Fanteria Siena, fuggì dall’isola
imbarcandosi a Tsoutsouro su un sommergibile britannico raggiungendo
Mersa Matruh (Egitto) il pomeriggio del 23 settembre 1943. La fuga
del generale, ai cui ordini stavano i 20.000 italiani presenti a
Creta, destò profondo sconcerto e disorientamento tra le truppe.
Rientrato in Italia nel novembre 1943, Carta divenne comandante del
XIII Corpo d’Armata e sul caso calò una coltre di silenzio.
La
vicenda che interessò Sardu peraltro fu assai singolare in quanto lo
stesso, a seguito dell’Armistizio, non venne mai catturato dai
tedeschi né si consegnò agli stessi e, dopo aver vissuto per un
certo periodo in uno status
di sostanziale latitanza nell’isola di Rodi, dove era di stanza
alle dipendenze della Marina come comandante di una batteria
antiaerea, per sfuggire alla cattura, si arruolò come lavoratore
straniero nella Todt, l’impresa di costruzioni che operava sotto la
direzione dei comandi militari tedeschi.
Sardu,
peraltro, più che un lavoratore, si considerò sempre un prigioniero
di guerra (ancorché non venne mai internato in un lager). Lo stesso,
dal 23 gennaio 1944 al 1° luglio 1945, compilò il suo Diario dove
registrava, con certosina puntualità, l’evolversi della situazione
sino al rientro in Italia. Non si tratta di un’opera letteraria ma
di un “Diario di guerra” - come evidenzia Abis nell’introduzione
- ma non per questo è meno importante in quanto fornisce un quadro
nitido e immediato sulle vicende che lo videro protagonista.
Col
progressivo prevalere di criteri economici razionali in merito
all’impiego degli internati come forza lavoro, il loro status
di
internati, inizialmente definito in relazione alle esigenze della
politica di alleanza con la Repubblica Sociale Italiana, subì un
ulteriore cambiamento e gli “IMI”, a seguito dei protocolli
sottoscritti a Gubern il 30 luglio 1944 tra i governi del Terzo Reich
e della Repubblica Sociale, furono trasformati in “lavoratori
civili”. Il cambio di strategia fu deciso da Hitler per poter
sfruttare ancora di più gli “schiavi” italiani: il passaggio
degli IMI allo status
di “lavoratori civili” fu solo uno strumento per adibire i
prigionieri secondo le mutate esigenze. In ogni caso, su un totale di
circa 600.000 internati, quasi 500.000 optarono per il lavoro civile,
circa 25.000 si arruolarono nelle forze armate tedesche o della
Repubblica Sociale, mentre i restanti 75.000 circa “preferirono”
restare internati nei lager.
Il
18 aprile del 1944, Sardu inizia il lungo viaggio che da Rodi lo
porterà prima all’aeroporto di Calamata, nei pressi di Atene, e
poi in un campo di raccolta e smistamento in Germania da dove,
caricato su un treno merci, giunge a Magdeburgo, in Sassonia. Da
allora, e sino al 1 aprile del 1945, è un continuo peregrinare, in
diversi centri della Germania, come lavoratore della Todt. L’obbligo
lavorativo si confonde con le esigenze di procurarsi il cibo e di
sfuggire ai continui bombardamenti dell’aviazione anglo-americana:
esigenze queste che spesso diventano prevalenti. Dal 1 aprile 1945,
Sardu è preso in carico dagli americani e poi dagli inglesi: sono
tre mesi di grande incertezza e di frenetica attesa sino a quanto,
nel luglio del 1945, fa rientro in Italia.
Sardu
vede la guerra in tutte le sue sfaccettature: non solo la paura di
morire, la fame, la sporcizia, le umiliazioni, il ladrocinio, la
vigliaccheria umana, ma anche la solidarietà e la speranza alla
quale è sempre in grado di attingere grazie anche alla sua radicata
fede cattolica. Constata la totale insipienza e l’inadeguatezza
degli alti comandi delle forze armate, la mancanza di onestà, il
crollo di ogni valore morale, a tutti i livelli.
Il
tempo della guerra è scandito dal rombo degli aerei militari, dal
tuonare dei cannoni e dal tambureggiare delle mitraglie: da un carico
di distruzione e morte. Ma è scandito anche dalla sporcizia, dalla
fame e dalla malattia, dallo scoppio di epidemie, da un carico di
sofferenze che solo chi crede nella palingenesi è in grado di
sopportare e di superare. Sardu descrive “il
passaggio di lunghe colonne di profughi fra i quali vari italiani, il
loro stato è pietoso, da lunedì sono in viaggio, molte donne e
bambini, mal vestiti, sporchi e zoppicanti, tanti sono montati su
carriole, trascinate da gente stanca …»
(Diario del 7 marzo 1945, p. 58). Spesso Sardu sogna Fiorenza, la
moglie che - a seguito delle disposizioni sull’esodo dei civili
impartite dal Governatorato di Rodi - si trova a Lecce in attesa che
la guerra finisca. Sono sogni all’insegna della speranza ma anche
della paura: in un sogno, addirittura, Fiorenza appare sposata con un
russo.
Nel
1945, nella fase che caratterizza l’arrivo in Germania degli
“alleati” (gli americani) regna il caos più assoluto e aumenta
l’incertezza. Le aspettative sono tante e la paura aumenta. Sardu
pensa che, in questo inferno umano, tutti abbiano il diritto di
salvare la pelle, tedeschi compresi, perché tutti sono uomini e
perché tutti «siamo
nelle mani di Dio».
Sardu assiste a degli assassinii ben premeditati: bombe sganciate un
po’ dovunque anche su case inermi, in aperta compagna, dove non vi
può essere alcun obiettivo militare. E di tali atrocità si rendono
responsabili sia i piloti inglesi della RAF che quegli delle forze
aeree statunitensi: «immagino
vi sia una forte percentuale di delinquenti e non di soldati»,
annota Sardu (Diario del 20 marzo 1945, p. 67).
E
aggiunge che, «Se
come un tempo diceva la stampa inglese “i tedeschi bombardavano a
casaccio senza scelta di obiettivo”, oggi si può dire altrettanto
degli alleati e incolparli non solo di bombardare i paesi a casaccio
ma di bombardare anche i “lager” ove viviamo gli internati di
tutte le nazionalità alleati degli anglo-americani e una
piccolissima parte di tedeschi. I signori anglo-americani come
bombardarono noi italiani, francesi, belgi, polacchi, serbi, croati,
russi ecc. ecc. bombarderanno anche i lager ove sono prigionieri
anglo-americani? Questa non è più guerra, è assassinio che
disonora i belligeranti».
Nella
“Domenica delle Palme” (25 marzo 1945), suona l’allarme e
diverse centinaia di quadrimotori rombano sul cielo diretti, col loro
carico di bombe a portare distruzione e morte. Sardu invoca: «Grande
Iddio, quando dirai basta a questa furia demoniaca della guerra?».
Il 31 marzo 1945, “Sabato Santo”, in una giornata fredda, mentre
continua il passaggio dei mezzi tedeschi in ritirata, è tutto un
fiorire di americani con carri armati, autoblindi e ogni sorta di
mezzi motorizzati. I soldati “alleati” coi loro mezzi schizzano
fango e ogni tanto lanciano sigarette ai passanti per evocare un
senso dell’abbondanza e dello spreco che in Germania non si vedeva
da tempo.
Ma
c’è ancora violenza, tanta violenza. I russi, organizzati a
gruppi, si danno in modo sistematico allo svaligiamento. Sardu, per
ordine degli americani, ha preso parte allo sgombero di un villino
«sconquassando
e bruciando mobili, mucchi di biancheria di ogni genere, bilance
automatiche, servizi di bicchieri, posate, registratori di cassa,
ninnoli ecc. ecc. Il padrone torna con la famiglia (una signora, una
signorina e una bambina) verso le 9h, a vedere tanto disastro
piangono e vorrebbero ritirare qualche cosa che sta per bruciare, un
ufficiale lo apostrofa in malo modo e poi lo piglia a calci, la
signorina in mezzo a tanta confusione raccoglie qualche straccio e se
ne va (una famiglia rovinata completamente). È forse giusto che gli
americani agiscano così sebbene i tedeschi ne abbiano combinate
tante? Non voglio discutere e se me la posso sfrancare non voglio più
andare ad assistere a cose del genere».
Nel
Diario del 19 aprile 1945, Sardu fa il conto degli italiani che al 12
aprile sono scappati dalla Todt. La cifra sebbene esigua è
consolante: dei 29 italiani presenti al 28 marzo, 13 (tra cui lo
stesso Sardu) sono scappati. Lo stesso spera che al gruppo si
aggiungano quanto prima gli altri 16 che «non
la sfortuna ma la fifa ha fatto proseguire con quegli assassini»
(i nazisti). I “liberatori” peraltro stentano ad assumere
provvedimenti. Sardu è stufo della vitaccia da cane e non vorrebbe
più andare al campo dove, oltre patire la fame, si sta male anche
per dormire.
La
situazione è drammatica. Pare che un gruppo di prigionieri russi,
per la fame sofferta durante il trasporto dalla Russia, si fosse
cibato della carne dei compagni morti durante il viaggio (Diario dal
1 al 3 maggio 1945). Poi Sardu lamenta che «gli
americani stanno scocciandoci in maniera che siamo già stanchi della
loro “liberazione”. Domenica è toccata a un tedesco che senza
alcun motivo che quello d’esser tedesco è stato tenuto per varie
ore sull’attenti con il berretto calato sugli occhi; ieri mattina
idem un operaio venuto al campo dalla fabbrica vicina sorvegliata da
americani, per aprire l’acqua è stato schiaffeggiato e poi messo
sull’attenti senza alcun motivo, anzi intralciando il lavoro per
conto degli americani. Sembra che quanto si diceva anni fa
corrisponda a verità, gli americani non sono uomini nel vero senso
della parola»
(cfr. Diario dal 4 al 9 maggio 1945).
Nelle
giornate seguenti, Sardu stigmatizza la condotta immorale delle donne
del luogo: «non
è raro il caso di vedere mamma e figlia che vanno a … caccia
insieme, il numero delle ragazze è addirittura enorme e non mancano
quelle che sono appena signorine, v’è poi la non meno grande
classe delle vedove che sia per bisogno che per vizio si offrono come
cagne, oltre alla fame vi sono quelle che lo fanno per vizio con
eccesso tale che sembra che il tempo fugga non a minuti e ad ore ma
ad anni. Specie gli italiani sono ricercati e non è difficile che
uno anche non tanto intraprendente riesca in poche ore a farsi la
fidanzata e poco dopo l’amante. Ciò che si vede è semplicemente
nauseante»
(cfr. Diario del 10 maggio 1945). «L’afflusso
di donne continua con crescente nausea, sembra che 32 internati
abbiano contratto malattie poco simpatiche»
(Diario del 16 maggio 1945). Nel Diario, dal 28 al 31 maggio 1945,
Sardu registra che «il
bordello delle tedesche è sempre in aumento, brigate di ragazze in
cerca di viveri si danno alla … pazza gioia».
Nel
mentre arrivano notizie sull’evolversi della situazione politica
internazionale. «…
Secondo ciò che hanno detto vari americani, in Italia ci sarebbe un
bel bordello, l’Jugoslavia vorrebbe Trieste e cioè tutta l’Istria
e naturalmente Fiume e forse Zara, a che è servito il passaggio
della flotta agli alleati, il concorso alla guerra contro i tedeschi?
È inutile, ci vogliono mutilare e mutilandoci domani dovremo fare
una nuova guerra, ebbene mutilateci Liberatori d’oltremare, domani
vi daremo filo da torcere ancora»
(Diario del 18-19 maggio 1945). «… L’occupazione
dell’Istria da parte di Tito voglio sperare siano chiacchiere
insulse, siano in diversi a pronosticare in tal caso una guerra tra
Italia e Jugoslavia e naturalmente verranno in aiuto dell’Italia
gli Anglo-americani e per gli slavi i russi. Certamente in tutto ciò
lo zampino dell’orso moscovita c’è»
(Diario del 20 maggio 1945).
Intanto,
annota Sardu, «Un
altro mese è sfumato e di rimpatrio non se ne parla. Stanotte
all’ospedale è morto un calabrese malato di tubercolosi, meningite
o un’altra malattia di cui mi sfugge il nome. Il mio pensiero va a
quella povera madre che in attesa del rimpatrio del figlio riceverà
il suo annunzio di morte. Quante mamme, quante spose, quanti figli,
col finir della guerra, aperto il cuore alla speranza di poter
finalmente riabbracciare i loro cari, dovranno contentarsi di un
laconico annuncio di morte senza saper né come né dove il povero è
deceduto. Quanti poi fra i morti italiani, polacchi e russi non han
trovato riposo neanche in un cimitero ma arsi completamente, le loro
ceneri lasciate in balia dei venti. La radio alleata comunica che dei
650.000 prigionieri italiani solo 3/4 siano ancora vivi. Dio sa cosa
penseranno le nostre famiglie! Barbari tedeschi, la state pagando
però! Branchi di femmine d’ogni età s’aggirano per le strade,
per un pezzo di pane o un po' di segale si danno come cagne. Dov’è
il vostro orgoglio? Non ricordate quando vedevate un russo, un
polacco e anche un italiano ci guardavate come se fossimo appestati?
Di novità niente»
(Diario, dal 1 al 3 giugno 1945).
«Di
nuovo nulla. Ci han dato una specie di tesserino e basta. Il troiume
è sempre in aumento, anzi da qualche giorno si nota qualche
infiltrazione sul campo addirittura»
(Diario dal 4 al 7 giugno 1945). «Nulla
di nuovo, fa freddo, ogni tanto pioviggina e si ha fame. Dicono che
deve venire un generale inglese a ispezionare il campo e già si
preparano a dirgliene circa i viveri»
(Diario dell’11-12 giugno 1945). «… Italiani
provenienti da Wesel sono in giro diretti a Munster in cerca di
lavoro per sfamarsi. Altro che liberatori e alleati!»
(Diario dal 13 al 15 giugno 1945). «…
Domenica sono stato in chiesa, il prete ha fatto un sermone per le
donne tedesche rimproverandole per il loro troiume. Fatto degno di
nota: un tedesco prigioniero proveniente dall’Italia parlando con
un gruppo di italiani ha fatto sfoggio di non poche avventure amorose
e fra tante fotografie di donne v’era quella della moglie d’un
italiano presente all’intervista. Ha conservato la foto in attesa
di ritornare a casa e sistemare i conti con la moglie …»
(Diario del 21-27 giugno 1945).
«Da
vari giorni giungono notizie da altri campi che fra italiani e
tedeschi avvengono fatti poco simpatici. I tedeschi che ce l’hanno
a morte con gli italiani per la faccenda del (verraten) tradimento,
per quelli d’oggi che si sono accaparrate le loro donne e sono
senza moglie, figlie, sorelle ecc. ecc., tanto è vero che molti
mariti devono andare ai comandi inglesi per far ridare le donne e
gl’inglesi per lo più se la ridono. Riporto un fatterello. Marito,
moglie e figlia in cerca di cibo si fermano nelle vicinanze d’un
“lager” d’italiani a Reckinghausen. Il marito poggia la
bicicletta al reticolato e va in cerca di cibo, intanto la moglie e
la figlia aspettano, ingranano discussione con vari italiani che le
invitano al lager per uno spuntino a tavola e a … letto. La
bicicletta restata incustodita non viene più trovata dal marito che
dopo tanto trova le sue donne in dolce colloquio con gli italiani e
affatto ideate di seguirlo. Il povero marito deve quindi seguire la
sua strada a piedi e senza moglie né figlia. Altro ancora: le donne
di Reckinghausen di sera vanno a ballare in “lager”, i poliziotti
tedeschi fanno irruzione …»
(Diario del 28 giugno 1945). Di queste storie, fatte di miseria e
violenza, Sardu ne racconta diverse.
E
si arriva così al 1 luglio 1945: è una domenica, giorno dei
preparativi. Sardu parte da Haltern su un treno «stracarico
di internati e donne tedesche, la maggior parte di dubbia moralità».
Si vedono «coppie
di ragazze accompagnate da italiani, la solita lussuria, la
spaventosa corruzione iniziata con la capitolazione…»,
un quadro desolante di miserie umane che la guerra non ha fatto altro
che ingigantire. Sin qui il “Diario” di Giovanni Sardu che
costituisce un contributo importante alla ricostruzione di una
vicenda poco conosciuta.
Infatti,
la storiografia riguardante gli IMI, sul piano nazionale ed europeo,
è ancora a uno stato del tutto insufficiente se si considera
l’ampiezza, la complessità e la gravità del fenomeno, anche alla
luce del numero assai elevato dei prigionieri coinvolti. Lo studio,
relativamente recente, delle vicende dei deportati italiani in
Germania nella seconda guerra mondiale ha sollevato il velo di omertà
che, per molti decenni, ha coperto una verità agghiacciante.
Alessandro
Natta (1918-2001), già internato militare italiano e segretario del
Partito Comunista Italiano dal 1984 al 1988, pubblicò nel 1996 il
volume “L’altra
Resistenza”
nel tentativo di porre le basi per un riconoscimento della Resistenza
dei militari italiani internati in Germania, con lo scopo di
“riabilitare” un esercito “uscito moralmente sconfitto dalla
guerra”. Natta, sottotenente di artiglieria, nei giorni successivi
all’Armistizio, partecipò alla difesa dell’aeroporto di
Gaddurrà, nell’isola di Rodi. Venne ferito e internato in un campo
nella stessa isola per essere poi condotto, agli inizi del 1944, nei
lager in Germania.
Il
volume è di grande interesse anche se forse risente del desiderio
dell’autore di ricomporre la dolorosa frattura tra internati
militari e partigiani venutasi a creare nel dopoguerra. In realtà -
ad avviso di chi scrive - ricondurre la peculiare e complessa
esperienza dell’Internamento alle vicende della Resistenza in senso
classico significa non comprendere le premesse dell’Internamento
stesso e le conseguenze storiche di quella specifica esperienza. Gli
internati, a differenza dei partigiani, furono pressoché emarginati
dalla storiografia del dopoguerra e dalla memoria collettiva. Furono
in qualche misura “costretti” a doversi sentire “partigiani”
pur di essere ammessi a un riconoscimento pubblico della loro
esperienza, quasi dovessero essere sottoposti a una sorta di
riabilitazione della loro memoria. Questo stretto corridoio
ideologico ha di fatto contribuito a impedire un sereno e rigoroso
sviluppo della ricerca storica sugli internati militari italiani.
La
questione del resto si ricollega alle resistenze politiche, piuttosto
forti e assai indicative, che Natta incontrò, negli anni Cinquanta,
all’interno della dirigenza politica del partito comunista
italiano, quando intendeva pubblicare le sue memorie. Nell’immediato
dopoguerra e per diversi decenni, l’accostamento tra partigiani (in
senso stretto) e internati militari italiani era mal digerita
dall’intellighenzia comunista che paragonava l’esperienza di
questi ultimi a un fenomeno “reducistico” se non corporativo. In
conseguenza di ciò, il suo libro dovette attendere quarant’anni
prima di essere pubblicato.
Di
queste resistenze ebbe modo di parlare lo stesso Natta agli inizi
degli anni Novanta ricordando di avere scritto una testimonianza
sull’esperienza dell’internamento e di aver incontrato il veto
alla pubblicazione da parte degli Editori Riuniti, la casa editrice
vicina al PCI. Natta riteneva utile l’avvio di una riflessione
storico-politica sulla deportazione in Germania dopo l’8 settembre
1943 e sulla resistenza opposta dai soldati e dagli ufficiali
italiani. Nel libro, Natta mette in luce il carattere peculiare
dell’internamento di centinaia di migliaia di militari italiani nei
campi di concentramento del Terzo Reich: peculiarità che non fa
certo venir meno il valore di quell’esperienza.
Antonello
Angioni