lunedì 3 febbraio 2025

Una recensione di Antonello Angioni - "Diario di Giovanni Sardu, militare “prigioniero” dei tedeschi nel 1944-45" a cura di Angelo Abis, editore Pietro Macchione, 2024.

 

Diario di Giovanni Sardu, militare “prigioniero” dei tedeschi nel 1944-45

di Antonello Angioni

Tra i meriti da ascrivere a Pietro Macchione, editore anticonformista e contro-tendenza, vi è sicuramente quello della recente pubblicazione del Diario di Giovanni Sardu, sotto ufficiale della Regia Marina Militare Italiana durante la seconda guerra mondiale. L’opera, curata da Angelo Abis, fornisce un quadro storiografico sulla condizione (non solo politica ma anche, e forse soprattutto, sociale e umana) degli Internati Militari Italiani (IMI): i militari italiani catturati e fatti prigionieri dagli ex alleati tedeschi, dopo l’8 settembre del 1943, nei diversi fronti di guerra (la Francia, i Balcani e la stessa Italia) e trasferiti in Germania per essere internati nei lager.

Va detto che i vertici tedeschi avevano da tempo messo in conto una possibile defezione italiana (ci sono documenti fin dal 28 luglio 1943) per cui, appena ebbero conferma dei loro sospetti, poterono attuare contromisure tempestive per invadere la penisola, assumerne il controllo e sfruttarne uomini e mezzi al fine di proseguire la guerra da soli. In pochi giorni disarmarono e catturarono circa 1.007.000 militari italiani su un totale di circa 2.000.000 sotto le armi. Ove si consideri che quasi 700.000 soldati erano già stati catturati da inglesi, francesi e americani prima dell’Armistizio, ne deriva che, nell’autunno del 1943, quasi l’intero esercito italiano era stato fatto prigioniero.

A partire dall’Armistizio, due eserciti stranieri (quello tedesco e quello anglo-americano) si scontrarono sul territorio dell’Italia che perse unità e autonomia politica e decisionale. In particolare, l’occupazione nazista si rivelò violenta e immediata mentre le disposizioni impartite alle divisioni sabaude furono confuse e tardive. Molti militari sbandati contribuirono a dare sostanza alle formazioni partigiane che, proprio in quei giorni, si stavano formando.

Nel periodo che va dal settembre 1943 (Armistizio) agli inizi del 1945, circa 800.000 italiani (militari e civili) vennero fatti prigionieri e, dopo interminabili viaggi, trasferiti su dei carri bestiame nel territorio del Terzo Reich. Gli uomini catturati dalle truppe naziste furono considerati “prigionieri di guerra” sino a quando, il 20 settembre 1943, Hitler impose che il gruppo più numeroso, formato da circa 650.000 militari, fosse classificato come Italienische Militarinternierte vale a dire Internati Militari Italiani. Il cambio di condizione giuridica fu ispirato dalla volontà di punire il “tradimento” dell’8 settembre, eludere i controlli della Croce Rossa Internazionale e soprattutto aggirare le limitazioni imposte dalla Convenzione di Ginevra che vieta l’utilizzo dei prigionieri di guerra nell’industria bellica (settore nel quale in Germania, fin dall’inizio delle ostilità, era esploso un crescente fabbisogno di manodopera). Si era in presenza di un trattamento deteriore rispetto a quello riservato ai prigionieri anglo-americani e francesi che potevano godere delle tutele previste dal diritto internazionale.

La singolare vicenda degli IMI ha inizio l’8 settembre 1943, giorno in cui il generale Pietro Badoglio, capo del governo dopo la destituzione di Mussolini, annuncia l’armistizio con gli anglo-americani firmato il 3 settembre a Cassibile: gli Stati che, sino al giorno prima, erano i nostri nemici diventano gli “alleati” e viceversa. La reazione della Germania nazista fu immediata e le truppe italiane, prive di ordini precisi, diventarono facile preda dell’ex alleato. Costretti a consegnare le armi, migliaia di soldati furono posti di fronte all’alternativa di continuare a collaborare con l’esercito tedesco o di finire internati nei lager. La maggior parte dirà “no” a qualsiasi ipotesi di adesione al progetto nazista e trascorrerà circa venti mesi di internamento e lavoro coatto, in condizioni disumane, patendo la fame e il freddo. Tra essi, circa 50.000 perderanno la vita nel corso della “prigionia” per malattie, denutrizione, esecuzioni e bombardamenti. Considerati traditori della comune causa bellica, i militari italiani furono sottoposti a sopraffazioni e angherie tra le più efferate che i tedeschi abbiano posto in essere contro i prigionieri di guerra.

Come dei veri e propri “schiavi”, gli internati italiani vennero sfruttati nelle miniere, presso le fabbriche di armamenti o nell’industria pesante e siderurgica, fino allo stremo delle loro forze. Spesso, oltre che per fame, morivano proprio per collasso cardiaco. Gli IMI subirono più di tutti i soprusi e le violenze da parte del personale di guardia della Wehrmacht (le forze armate tedesche) e dei dipendenti delle varie aziende dove lavoravano. In tal senso giocò un ruolo fondamentale la richiesta, diffusa a ogni livello istituzionale, di una rappresaglia per l’uscita dell’Italia dalla guerra. Gli italiani venivano presentati come “traditori”.

Va anche detto che un numero imprecisato di prigionieri italiani (tra i 13.000 e i 20.000) morì durante il trasporto dalle isole dell’Egeo al continente greco in quanto le navi vennero affondate dall’aviazione anglo-americana. Tra l’altro, nell’Egeo il comportamento degli alti ufficiali non fu sempre eroico. Ad esempio, il generale Angelico Carta di Riola Sardo (classe 1886), comandante a Creta della 51.ma Divisione di Fanteria Siena, fuggì dall’isola imbarcandosi a Tsoutsouro su un sommergibile britannico raggiungendo Mersa Matruh (Egitto) il pomeriggio del 23 settembre 1943. La fuga del generale, ai cui ordini stavano i 20.000 italiani presenti a Creta, destò profondo sconcerto e disorientamento tra le truppe. Rientrato in Italia nel novembre 1943, Carta divenne comandante del XIII Corpo d’Armata e sul caso calò una coltre di silenzio. 

La vicenda che interessò Sardu peraltro fu assai singolare in quanto lo stesso, a seguito dell’Armistizio, non venne mai catturato dai tedeschi né si consegnò agli stessi e, dopo aver vissuto per un certo periodo in uno status di sostanziale latitanza nell’isola di Rodi, dove era di stanza alle dipendenze della Marina come comandante di una batteria antiaerea, per sfuggire alla cattura, si arruolò come lavoratore straniero nella Todt, l’impresa di costruzioni che operava sotto la direzione dei comandi militari tedeschi. 

Sardu, peraltro, più che un lavoratore, si considerò sempre un prigioniero di guerra (ancorché non venne mai internato in un lager). Lo stesso, dal 23 gennaio 1944 al 1° luglio 1945, compilò il suo Diario dove registrava, con certosina puntualità, l’evolversi della situazione sino al rientro in Italia. Non si tratta di un’opera letteraria ma di un “Diario di guerra” - come evidenzia Abis nell’introduzione - ma non per questo è meno importante in quanto fornisce un quadro nitido e immediato sulle vicende che lo videro protagonista.

Col progressivo prevalere di criteri economici razionali in merito all’impiego degli internati come forza lavoro, il loro status di internati, inizialmente definito in relazione alle esigenze della politica di alleanza con la Repubblica Sociale Italiana, subì un ulteriore cambiamento e gli “IMI”, a seguito dei protocolli sottoscritti a Gubern il 30 luglio 1944 tra i governi del Terzo Reich e della Repubblica Sociale, furono trasformati in “lavoratori civili”. Il cambio di strategia fu deciso da Hitler per poter sfruttare ancora di più gli “schiavi” italiani: il passaggio degli IMI allo status di “lavoratori civili” fu solo uno strumento per adibire i prigionieri secondo le mutate esigenze. In ogni caso, su un totale di circa 600.000 internati, quasi 500.000 optarono per il lavoro civile, circa 25.000 si arruolarono nelle forze armate tedesche o della Repubblica Sociale, mentre i restanti 75.000 circa “preferirono” restare internati nei lager.

Il 18 aprile del 1944, Sardu inizia il lungo viaggio che da Rodi lo porterà prima all’aeroporto di Calamata, nei pressi di Atene, e poi in un campo di raccolta e smistamento in Germania da dove, caricato su un treno merci, giunge a Magdeburgo, in Sassonia. Da allora, e sino al 1 aprile del 1945, è un continuo peregrinare, in diversi centri della Germania, come lavoratore della Todt. L’obbligo lavorativo si confonde con le esigenze di procurarsi il cibo e di sfuggire ai continui bombardamenti dell’aviazione anglo-americana: esigenze queste che spesso diventano prevalenti. Dal 1 aprile 1945, Sardu è preso in carico dagli americani e poi dagli inglesi: sono tre mesi di grande incertezza e di frenetica attesa sino a quanto, nel luglio del 1945, fa rientro in Italia. 

Sardu vede la guerra in tutte le sue sfaccettature: non solo la paura di morire, la fame, la sporcizia, le umiliazioni, il ladrocinio, la vigliaccheria umana, ma anche la solidarietà e la speranza alla quale è sempre in grado di attingere grazie anche alla sua radicata fede cattolica. Constata la totale insipienza e l’inadeguatezza degli alti comandi delle forze armate, la mancanza di onestà, il crollo di ogni valore morale, a tutti i livelli.

Il tempo della guerra è scandito dal rombo degli aerei militari, dal tuonare dei cannoni e dal tambureggiare delle mitraglie: da un carico di distruzione e morte. Ma è scandito anche dalla sporcizia, dalla fame e dalla malattia, dallo scoppio di epidemie, da un carico di sofferenze che solo chi crede nella palingenesi è in grado di sopportare e di superare. Sardu descrive “il passaggio di lunghe colonne di profughi fra i quali vari italiani, il loro stato è pietoso, da lunedì sono in viaggio, molte donne e bambini, mal vestiti, sporchi e zoppicanti, tanti sono montati su carriole, trascinate da gente stanca …» (Diario del 7 marzo 1945, p. 58). Spesso Sardu sogna Fiorenza, la moglie che - a seguito delle disposizioni sull’esodo dei civili impartite dal Governatorato di Rodi - si trova a Lecce in attesa che la guerra finisca. Sono sogni all’insegna della speranza ma anche della paura: in un sogno, addirittura, Fiorenza appare sposata con un russo.

Nel 1945, nella fase che caratterizza l’arrivo in Germania degli “alleati” (gli americani) regna il caos più assoluto e aumenta l’incertezza. Le aspettative sono tante e la paura aumenta. Sardu pensa che, in questo inferno umano, tutti abbiano il diritto di salvare la pelle, tedeschi compresi, perché tutti sono uomini e perché tutti «siamo nelle mani di Dio». Sardu assiste a degli assassinii ben premeditati: bombe sganciate un po’ dovunque anche su case inermi, in aperta compagna, dove non vi può essere alcun obiettivo militare. E di tali atrocità si rendono responsabili sia i piloti inglesi della RAF che quegli delle forze aeree statunitensi: «immagino vi sia una forte percentuale di delinquenti e non di soldati», annota Sardu (Diario del 20 marzo 1945, p. 67). 

E aggiunge che, «Se come un tempo diceva la stampa inglese “i tedeschi bombardavano a casaccio senza scelta di obiettivo”, oggi si può dire altrettanto degli alleati e incolparli non solo di bombardare i paesi a casaccio ma di bombardare anche i “lager” ove viviamo gli internati di tutte le nazionalità alleati degli anglo-americani e una piccolissima parte di tedeschi. I signori anglo-americani come bombardarono noi italiani, francesi, belgi, polacchi, serbi, croati, russi ecc. ecc. bombarderanno anche i lager ove sono prigionieri anglo-americani? Questa non è più guerra, è assassinio che disonora i belligeranti».

Nella “Domenica delle Palme” (25 marzo 1945), suona l’allarme e diverse centinaia di quadrimotori rombano sul cielo diretti, col loro carico di bombe a portare distruzione e morte. Sardu invoca: «Grande Iddio, quando dirai basta a questa furia demoniaca della guerra?». Il 31 marzo 1945, “Sabato Santo”, in una giornata fredda, mentre continua il passaggio dei mezzi tedeschi in ritirata, è tutto un fiorire di americani con carri armati, autoblindi e ogni sorta di mezzi motorizzati. I soldati “alleati” coi loro mezzi schizzano fango e ogni tanto lanciano sigarette ai passanti per evocare un senso dell’abbondanza e dello spreco che in Germania non si vedeva da tempo.

Ma c’è ancora violenza, tanta violenza. I russi, organizzati a gruppi, si danno in modo sistematico allo svaligiamento. Sardu, per ordine degli americani, ha preso parte allo sgombero di un villino «sconquassando e bruciando mobili, mucchi di biancheria di ogni genere, bilance automatiche, servizi di bicchieri, posate, registratori di cassa, ninnoli ecc. ecc. Il padrone torna con la famiglia (una signora, una signorina e una bambina) verso le 9h, a vedere tanto disastro piangono e vorrebbero ritirare qualche cosa che sta per bruciare, un ufficiale lo apostrofa in malo modo e poi lo piglia a calci, la signorina in mezzo a tanta confusione raccoglie qualche straccio e se ne va (una famiglia rovinata completamente). È forse giusto che gli americani agiscano così sebbene i tedeschi ne abbiano combinate tante? Non voglio discutere e se me la posso sfrancare non voglio più andare ad assistere a cose del genere».

Nel Diario del 19 aprile 1945, Sardu fa il conto degli italiani che al 12 aprile sono scappati dalla Todt. La cifra sebbene esigua è consolante: dei 29 italiani presenti al 28 marzo, 13 (tra cui lo stesso Sardu) sono scappati. Lo stesso spera che al gruppo si aggiungano quanto prima gli altri 16 che «non la sfortuna ma la fifa ha fatto proseguire con quegli assassini» (i nazisti). I “liberatori” peraltro stentano ad assumere provvedimenti. Sardu è stufo della vitaccia da cane e non vorrebbe più andare al campo dove, oltre patire la fame, si sta male anche per dormire.

La situazione è drammatica. Pare che un gruppo di prigionieri russi, per la fame sofferta durante il trasporto dalla Russia, si fosse cibato della carne dei compagni morti durante il viaggio (Diario dal 1 al 3 maggio 1945). Poi Sardu lamenta che «gli americani stanno scocciandoci in maniera che siamo già stanchi della loro “liberazione”. Domenica è toccata a un tedesco che senza alcun motivo che quello d’esser tedesco è stato tenuto per varie ore sull’attenti con il berretto calato sugli occhi; ieri mattina idem un operaio venuto al campo dalla fabbrica vicina sorvegliata da americani, per aprire l’acqua è stato schiaffeggiato e poi messo sull’attenti senza alcun motivo, anzi intralciando il lavoro per conto degli americani. Sembra che quanto si diceva anni fa corrisponda a verità, gli americani non sono uomini nel vero senso della parola» (cfr. Diario dal 4 al 9 maggio 1945).

Nelle giornate seguenti, Sardu stigmatizza la condotta immorale delle donne del luogo: «non è raro il caso di vedere mamma e figlia che vanno a … caccia insieme, il numero delle ragazze è addirittura enorme e non mancano quelle che sono appena signorine, v’è poi la non meno grande classe delle vedove che sia per bisogno che per vizio si offrono come cagne, oltre alla fame vi sono quelle che lo fanno per vizio con eccesso tale che sembra che il tempo fugga non a minuti e ad ore ma ad anni. Specie gli italiani sono ricercati e non è difficile che uno anche non tanto intraprendente riesca in poche ore a farsi la fidanzata e poco dopo l’amante. Ciò che si vede è semplicemente nauseante» (cfr. Diario del 10 maggio 1945). «L’afflusso di donne continua con crescente nausea, sembra che 32 internati abbiano contratto malattie poco simpatiche» (Diario del 16 maggio 1945). Nel Diario, dal 28 al 31 maggio 1945, Sardu registra che «il bordello delle tedesche è sempre in aumento, brigate di ragazze in cerca di viveri si danno alla … pazza gioia». 

Nel mentre arrivano notizie sull’evolversi della situazione politica internazionale. «… Secondo ciò che hanno detto vari americani, in Italia ci sarebbe un bel bordello, l’Jugoslavia vorrebbe Trieste e cioè tutta l’Istria e naturalmente Fiume e forse Zara, a che è servito il passaggio della flotta agli alleati, il concorso alla guerra contro i tedeschi? È inutile, ci vogliono mutilare e mutilandoci domani dovremo fare una nuova guerra, ebbene mutilateci Liberatori d’oltremare, domani vi daremo filo da torcere ancora» (Diario del 18-19 maggio 1945). «… L’occupazione dell’Istria da parte di Tito voglio sperare siano chiacchiere insulse, siano in diversi a pronosticare in tal caso una guerra tra Italia e Jugoslavia e naturalmente verranno in aiuto dell’Italia gli Anglo-americani e per gli slavi i russi. Certamente in tutto ciò lo zampino dell’orso moscovita c’è» (Diario del 20 maggio 1945). 

Intanto, annota Sardu, «Un altro mese è sfumato e di rimpatrio non se ne parla. Stanotte all’ospedale è morto un calabrese malato di tubercolosi, meningite o un’altra malattia di cui mi sfugge il nome. Il mio pensiero va a quella povera madre che in attesa del rimpatrio del figlio riceverà il suo annunzio di morte. Quante mamme, quante spose, quanti figli, col finir della guerra, aperto il cuore alla speranza di poter finalmente riabbracciare i loro cari, dovranno contentarsi di un laconico annuncio di morte senza saper né come né dove il povero è deceduto. Quanti poi fra i morti italiani, polacchi e russi non han trovato riposo neanche in un cimitero ma arsi completamente, le loro ceneri lasciate in balia dei venti. La radio alleata comunica che dei 650.000 prigionieri italiani solo 3/4 siano ancora vivi. Dio sa cosa penseranno le nostre famiglie! Barbari tedeschi, la state pagando però! Branchi di femmine d’ogni età s’aggirano per le strade, per un pezzo di pane o un po' di segale si danno come cagne. Dov’è il vostro orgoglio? Non ricordate quando vedevate un russo, un polacco e anche un italiano ci guardavate come se fossimo appestati? Di novità niente» (Diario, dal 1 al 3 giugno 1945).

«Di nuovo nulla. Ci han dato una specie di tesserino e basta. Il troiume è sempre in aumento, anzi da qualche giorno si nota qualche infiltrazione sul campo addirittura» (Diario dal 4 al 7 giugno 1945). «Nulla di nuovo, fa freddo, ogni tanto pioviggina e si ha fame. Dicono che deve venire un generale inglese a ispezionare il campo e già si preparano a dirgliene circa i viveri» (Diario dell’11-12 giugno 1945). «… Italiani provenienti da Wesel sono in giro diretti a Munster in cerca di lavoro per sfamarsi. Altro che liberatori e alleati!» (Diario dal 13 al 15 giugno 1945). «… Domenica sono stato in chiesa, il prete ha fatto un sermone per le donne tedesche rimproverandole per il loro troiume. Fatto degno di nota: un tedesco prigioniero proveniente dall’Italia parlando con un gruppo di italiani ha fatto sfoggio di non poche avventure amorose e fra tante fotografie di donne v’era quella della moglie d’un italiano presente all’intervista. Ha conservato la foto in attesa di ritornare a casa e sistemare i conti con la moglie …» (Diario del 21-27 giugno 1945).

«Da vari giorni giungono notizie da altri campi che fra italiani e tedeschi avvengono fatti poco simpatici. I tedeschi che ce l’hanno a morte con gli italiani per la faccenda del (verraten) tradimento, per quelli d’oggi che si sono accaparrate le loro donne e sono senza moglie, figlie, sorelle ecc. ecc., tanto è vero che molti mariti devono andare ai comandi inglesi per far ridare le donne e gl’inglesi per lo più se la ridono. Riporto un fatterello. Marito, moglie e figlia in cerca di cibo si fermano nelle vicinanze d’un “lager” d’italiani a Reckinghausen. Il marito poggia la bicicletta al reticolato e va in cerca di cibo, intanto la moglie e la figlia aspettano, ingranano discussione con vari italiani che le invitano al lager per uno spuntino a tavola e a … letto. La bicicletta restata incustodita non viene più trovata dal marito che dopo tanto trova le sue donne in dolce colloquio con gli italiani e affatto ideate di seguirlo. Il povero marito deve quindi seguire la sua strada a piedi e senza moglie né figlia. Altro ancora: le donne di Reckinghausen di sera vanno a ballare in “lager”, i poliziotti tedeschi fanno irruzione …» (Diario del 28 giugno 1945). Di queste storie, fatte di miseria e violenza, Sardu ne racconta diverse.

E si arriva così al 1 luglio 1945: è una domenica, giorno dei preparativi. Sardu parte da Haltern su un treno «stracarico di internati e donne tedesche, la maggior parte di dubbia moralità». Si vedono «coppie di ragazze accompagnate da italiani, la solita lussuria, la spaventosa corruzione iniziata con la capitolazione…», un quadro desolante di miserie umane che la guerra non ha fatto altro che ingigantire. Sin qui il “Diario” di Giovanni Sardu che costituisce un contributo importante alla ricostruzione di una vicenda poco conosciuta.

Infatti, la storiografia riguardante gli IMI, sul piano nazionale ed europeo, è ancora a uno stato del tutto insufficiente se si considera l’ampiezza, la complessità e la gravità del fenomeno, anche alla luce del numero assai elevato dei prigionieri coinvolti. Lo studio, relativamente recente, delle vicende dei deportati italiani in Germania nella seconda guerra mondiale ha sollevato il velo di omertà che, per molti decenni, ha coperto una verità agghiacciante.

Alessandro Natta (1918-2001), già internato militare italiano e segretario del Partito Comunista Italiano dal 1984 al 1988, pubblicò nel 1996 il volume “L’altra Resistenza” nel tentativo di porre le basi per un riconoscimento della Resistenza dei militari italiani internati in Germania, con lo scopo di “riabilitare” un esercito “uscito moralmente sconfitto dalla guerra”. Natta, sottotenente di artiglieria, nei giorni successivi all’Armistizio, partecipò alla difesa dell’aeroporto di Gaddurrà, nell’isola di Rodi. Venne ferito e internato in un campo nella stessa isola per essere poi condotto, agli inizi del 1944, nei lager in Germania.

Il volume è di grande interesse anche se forse risente del desiderio dell’autore di ricomporre la dolorosa frattura tra internati militari e partigiani venutasi a creare nel dopoguerra. In realtà - ad avviso di chi scrive - ricondurre la peculiare e complessa esperienza dell’Internamento alle vicende della Resistenza in senso classico significa non comprendere le premesse dell’Internamento stesso e le conseguenze storiche di quella specifica esperienza. Gli internati, a differenza dei partigiani, furono pressoché emarginati dalla storiografia del dopoguerra e dalla memoria collettiva. Furono in qualche misura “costretti” a doversi sentire “partigiani” pur di essere ammessi a un riconoscimento pubblico della loro esperienza, quasi dovessero essere sottoposti a una sorta di riabilitazione della loro memoria. Questo stretto corridoio ideologico ha di fatto contribuito a impedire un sereno e rigoroso sviluppo della ricerca storica sugli internati militari italiani.

La questione del resto si ricollega alle resistenze politiche, piuttosto forti e assai indicative, che Natta incontrò, negli anni Cinquanta, all’interno della dirigenza politica del partito comunista italiano, quando intendeva pubblicare le sue memorie. Nell’immediato dopoguerra e per diversi decenni, l’accostamento tra partigiani (in senso stretto) e internati militari italiani era mal digerita dall’intellighenzia comunista che paragonava l’esperienza di questi ultimi a un fenomeno “reducistico” se non corporativo. In conseguenza di ciò, il suo libro dovette attendere quarant’anni prima di essere pubblicato.

Di queste resistenze ebbe modo di parlare lo stesso Natta agli inizi degli anni Novanta ricordando di avere scritto una testimonianza sull’esperienza dell’internamento e di aver incontrato il veto alla pubblicazione da parte degli Editori Riuniti, la casa editrice vicina al PCI. Natta riteneva utile l’avvio di una riflessione storico-politica sulla deportazione in Germania dopo l’8 settembre 1943 e sulla resistenza opposta dai soldati e dagli ufficiali italiani. Nel libro, Natta mette in luce il carattere peculiare dell’internamento di centinaia di migliaia di militari italiani nei campi di concentramento del Terzo Reich: peculiarità che non fa certo venir meno il valore di quell’esperienza.


Antonello Angioni

sabato 7 dicembre 2024

Gastone Breccia, "Lo scudo di Cristo - Le guerre dell'impero romano d'Oriente", Laterza 2016 - Una recensione di Ettore Martinez


 

"Gastone Breccia "Lo scudo di Cristo – Le guerre dell'Impero romano d'Oriente", Laterza 2016.

La prima cosa da constatare è come, dell'Impero romano d'Oriente o Bizantino, si parli generalmente assai poco. Nonostante l'enorme importanza che ha rivestito per secoli e sotto tutti gli aspetti.

Eppure l'impero di Costantinopoli,la "Nuova Roma" inaugurata da Costantino nel 330 ed espugnata dai Turchi Osmanli solamente nel 1453, è durato più di mille anni.

Per questo suo studio di Storia militare che copre i secoli che vanno dal IV al X, Gastone Breccia prende le mosse dalla disastrosa battaglia persa dai Romani contro i Goti ad Adrianopoli, scontro che vide l'annientamento dell'esercito imperiale, compreso della maggior parte del suo "stato maggiore" e dello stesso imperatore Valente.

Diciamo da subito che Breccia ha dovuto fare i conti per il suo lavoro con una documentazione spesso lacunosa e frammentaria che gli ha impedito su molti punti tecnici di essere preciso come avrebbe voluto.

Adrianopoli quindi segnò la fine del mito della superiorità delle legioni romane impostate sulla centralità della fanteria pesante: ecco allora che, visto anche il decremento demografico in atto, Teodosio pensò di riorganizzare l'esercito e la difesa in un modo alquanto diverso rispetto alla tradizione precedente.

Con Leone III e Costantino V, a seguito di altre criticità, proseguirà l'opera di ri-adattamento delle forze, della loro dislocazione logistica nonché delle risorse e della strategia da parte di un impero perennemente in guerra. Contro Barbari, Persiani, Arabi, Slavi, Bulgari, tutti sempre ansiosi di mettere le mani sulla Città e il suo porto.

Qui sta, a nostro avviso, il cuore della ricostruzione di Breccia: la sottolineatura della flessibilità, militare e più ancora diplomatica, come unica risposta possibile davanti ad attacchi spesso provenienti da più di una parte. Militarmente centrale diventa una cavalleria agile e spesso armata alla leggera; fondamentale l'addestramento dei vari contingenti per potere imporre al nemico una decisiva superiorità organizzativa e strategica.

La fanteria, un tempo gloriosa regina delle battaglie,viene destinata quindi a difese prevalentemente statiche,sia nelle fortezze e i trinceramenti che sul campo.

Soprattutto dopo Giustiniano e il suo progetto di "renovatio imperii", che costò alle casse dello Stato un autentico tesoro, la "Nuova Roma" dovette essere sempre sulla difensiva. Bisanzio, porta dell'Oriente, faceva gola a troppi e per giunta era perennemente insidiata, se non squassata, al suo interno -e per giunta proprio nei momenti peggiori- da lotte religiose, rivolte militari, crudeli scontri tra fazioni per il potere imperiale.

Si salvò, a duro prezzo, grazie all'imponente cinta muraria realizzata da Teodosio II -che cederà soltanto alle artiglierie turche- alla sua flotta e infine anche al provvidenziale "fuoco greco".

Ma soprattutto in virtù della capacità che seppe sviluppare di adattare la difesa al suo tessuto produttivo, alle disponibilità economiche e sociali, alle nuove esigenze belliche. Pervenendo infine all'astuta strategia della "Paradronès", la guerriglia.

Si stagliano su questo orizzonte di perenne e pericolosa incertezza, figure tragiche di imperatori -giusto per citarne solo altri tre- particolarmente bravi e sfortunati come Maurizio (582-602)o eroici quali Eraclio (610-641) e Leone III (675-741).

Il libro (420 pagine, note comprese) si legge, non proprio tutto d'un fiato perché è un saggio teoricamente piuttosto denso, ma sicuramente a lunghe sorsate per via di una accattivante prosa scorrevole e partecipata.

Breccia concorda in gran parte con Archer Jones nel constatare che "i fattori militari bastano a spiegare la maggior parte degli eventi militari" (1987). Questo però non toglie che la sua ricostruzione sia ricca di riferimenti e rimandi ad altri campi storici.

Ettore Martinez



lunedì 25 novembre 2024

Giuseppe Governale, "Sapevamo già tutto" - "Perché la Mafia resiste e dovevamo combatterla prima", 2021. Una nota di Ettore Martinez


 MEGLIO ONESTI

Un articolo di Francesco Alberoni uscito il 26 Marzo del 2007 sul Corriere della Sera è stato ripreso da Giuseppe Governale in questo suo "Sapevamo già tutto" - "Perché la Mafia resiste e dovevamo combatterla prima", 2021.
L'articolo si intitola "Perché l'onesto è più creativo ed efficiente"
« Ora domandiamoci: gli onesti, coloro che hanno la bussola dell'integrità, come possono operare in un mondo dove ci sono tanti potenti corrotti e tanti spregiudicati? Non verranno sempre sconfitti? »

IL LIBRO

« ... la presa d'atto da parte dell'opinione pubblica che, per la repressione del fenomeno, non si andava oltre ad "affermazioni di principio" senza porre sul campo "strumenti o tempestivi esempi di concreta volontà per la neutralizzazione del loro sussistere [...] anche quando si sono dovuti registrare altri gravissimi eventi" » (pag. 152)
Giuseppe Governale un carabiniere siciliano. O forse, meglio ancora: un siciliano carabiniere. In questo libro l'amore per la sua terra da parte di questo generale, che ha comandato i ROS e che ha diretto la DIA, è più che tangibile. A momenti letterario.
Il libro, per quanto sfiori le 350 pagine non ha -dichiaratamente- la pretesa di ricostruire tutta la storia della Mafia. Ne esamina però dei momenti cruciali, delle boe storiche -diciamo, e li analizza con precisione e senso critico. Senza rinunciare mai a denunciare le collusioni fra i politici e gli apparati dello Stato con Cosa Nostra.
La Mafia siciliana, per quanto al momento surclassata dalla 'Ndrangheta calabrese e militarmente indebolita, ci dice Governale, è tutt'altro che morta.
Troppi ritardi nell'avvedersi della sua pericolosità e troppe coperture hanno sempre evitato un'azione risolutiva politica-culturale-economica da parte dello Stato.
Al riguardo ci viene in mente il lavoro di Tranfaglia, "Mafia, Politica e Affari", che riproduce nel testo le varie inchieste parlamentari e che documenta, fra le altre cose, il colpevole ritardo nel prendere atto del fenomeno a livello istituzionale. "Campieri"-si diceva un tempo per sminuire il fenomeno.
In una ricostruzione storica -inframmezzata da considerazioni sociali, culturali e psico-antropologiche, non poteva mancare il riferimento alle famose bande di "picciotti" che affiancarono Garibaldi. Argomento sul quale si soffermò a suo tempo Salvatore Romano nel suo classico "Storia della Mafia". Ci pare però che le conclusioni cui pervengono i due autori siano divergenti; Romano infatti salva le bande composte da artieri e condanna le contro-bande armate dai latifondisti; da queste ultime sarebbe stata costituita la Mafia.
Ci sembra invece che Governale sia pervenuto ad un riconoscimento più disincantato del fenomeno: erano proprio prevalentemente composte e dirette da mafiosi. La Mafia, dice Governale, sostiene sempre le rivolte -ma solo per i propri scopi.
In Sicilia, a parte le collusioni, non sono mai mancati neanche coloro i quali hanno combattuto la Mafia con mezzi mafiosi o che hanno goduto di privilegi impropri che hanno caricato il popolo siciliano di ulteriore rassegnazione e disincanto.
La lucidità e il curriculum di Governale ci fanno ben sperare.

domenica 25 agosto 2024

LA “STANCHEZZA IMPERIALE” secondo Dario Fabbri fine dell'Imperialismo oppure imperialismo 2.0? Una recensione di Mauro Scorzato


 

LA “STANCHEZZA IMPERIALE” secondo Dario Fabbri
fine dell'Imperialismo oppure imperialismo 2.0?
di Mauro Scorzato

Secondo Fabbri , e non solo secondo lui, l’impero americano o, altrimenti detta, “globalizzazione” sta giungendo alla fine. Non tanto per il sorgere di un altro impero alternativo che genererebbe la Limesiana “transizione egemonica” , quanto perché l’impero è “stanco”.
Una parte di esso, quello che giace lungo le coste degli Stati Uniti, si è resa improvvisamente conto che la gran parte del mondo a cui si è cercato di imporre il modello americano (o “occidentale”, che dir si voglia), non lo vuole, non lo accetta e anzi lo osteggia.
I valori che hanno guidato la globalizzazione rimangono estranei alla vita di quei popoli che ne hanno degli altri e che non ci pensano proprio a buttarli alle ortiche per dare spazio a modelli che sono in antitesi ai loro.
E così , rifiutando l’idea stessa che qualcuno non possa adottare quel mondo che loro hanno creato ad uso e consumo altrui, gli americano “costieri “ se ne fanno una colpa: sicuramente non sono riusciti a spiegare tutti i vantaggi di quelli che sono i modelli di sviluppo occidentali e questo fallimento è sicuramente colpa loro, degli americani colti. E questo genera depressione.
Al contrario, gli americani del centro, del Midwest, quelli che della creazione del modello hanno pagato il prezzo più caro, quella classe media che con le sue tasse mantiene l’industria degli armamenti e delle guerra, che con i suoi figli ne paga il prezzo in sangue e PTSD (Post Traumatic Stress Disorder), quelli che guardano desolati le loro industrie arrugginire per dare spazio a quelle importazioni che avrebbero generato una dipendenza perenne ai loro alleati, sono arrabbiati.
Il resto del mondo se ne frega di quanti figli essi abbiano sacrificati, di quanto benessere abbiano buttato per tenere dietro alle aspirazioni imperiali: non c’è niente da fare, non vogliono diventare Americani nonostante tutto e allora che se ne vadano a quel paese! Arridatece le nostre industrie, il nostro hamburger, il nostro vivere lontano da tutto il resto in piccole comunità dove d’inverno si gela e d’estate si arrostisce. E votano Trump.
Ma anche loro vanno in depressione, anzi, votano Trump proprio perché sono in depressione.
Dario Fabbri ci informa che un americano su tre è stato diagnosticato patologicamente depresso e questo effettivamente rappresenterebbe un dato che, riferito ad altri farebbe sorgere il dubbio che quanto a volontà di potenza, di mantenere il primato mondiale, di rappresentare il poliziotto del mondo e la guida, siamo proprio arrivati alla frutta, negli Stati Uniti.
Effettivamente l’analisi non fa una piega: andando a verificare quanto accade ora negli “States” i sintomi di quanto espresso da Fabbri si riscontrano tutti. La disaffezione verso le istituzioni, il fenomeno woke, l’aumento della violenza inconsulta, la difficoltà a reclutare militari per le Forze Armate a causa di carente forma fisica, dipendenza da psicofarmaci e precedenti penali.

È però andando alla storia degli Stati Uniti che una inquietante riflessione si affaccia. In effetti, gli Stati Uniti si “nutrono” di depressione come una neoplasia si nutre di zuccheri. Tutte le espansioni che hanno portato quella nazione a quello che vediamo oggi hanno avuto origine da lunghi periodi di depressione: per dirla in termini psichiatrici la “fase reattiva“ della sindrome ansioso-depressiva statunitense si è sempre estrinsecata, a volte non in modo immediato, in una espansione del modello uscito dalla crisi.

Così è stato alla fine della Guerra di Secessione, quando al termine del conflitto il Paese era ridotto in pessime condizioni soprattutto morali: crimine rampante, faide tra famiglie risvegliate dalla vittoria di un partito, malessere sociale sia nel Midwest che nelle grandi città costiere. Lo stato uscito dalla guerra sembrava non fosse “attrezzato” per affrontare queste sfide che un grande paese unito poneva.
Ma una costante riforma delle istituzioni e un ricucire la parte ideologica faceva si che in meno di vent’anni un Mc Kinley già ponesse le basi per il primo impero americano: la generazione che aveva difeso le fattorie dai razziatori e dagli sbandati della guerra civile, che aveva tenuto gli indiani lontani dai pascoli mentre i padri cadevano a Shiloh Church, ora si lanciava alla conquista della parte del mondo più vicina. Ricomposta non solo nel tessuto ma anche nell’ideologia arrivando così a presenziare nel Mediterraneo dopo aver dissolto la Spagna, con un Teddy Roosevelt (Theodore) pronto a dire all’onnipossente Europa “ci siamo anche noi”.

Possiamo affermare che i vantaggi di quella reazione si protrassero fino al primo Conflitto Mondiale, quando sazi delle prime conquiste, gli americani come gli europei di oggi si spostarono sull’economia. Ma dopo un po’, una trentina d’anni, nel 1929 arrivò un’altra depressione, la depressione con la “D” maiuscola, quella degli Hobos, delle file per mangiare, del lavorare per un tozzo di pane. Masse di depressi si aggiravano per il paese aspirando a una nuova vita dopo essere stati presi in giro dalla parte più deteriore dell’economia: la finanza. Ma anche qui un altro Roosevelt (FDR) innescò una reazione con il suo New Deal che porterà gli Stati Uniti ad affrontare il secondo conflitto mondiale nelle condizioni economico-industriali (anche se non militari, settore questo dove infatti si era fatta invece molta economia) che conosciamo. E da cui nasce l’impero di cui discutiamo oggi.
Ma non è finita, dopo circa trent’anni, che sembra essere il ciclo di “depressione reazione affermazione” , la sconfitta nella guerra del Vietnam fa precipitare un’altra volta il paese nella depressione: l’apparato industriale militare su cui si era costruito l’impero del primo dopoguerra crollava miseramente lasciando nella disperazione e nella depressione soprattutto politica gli interi Stati Uniti. Questa volta ci si impiega molto meno per uscire dalla depressione ed entrare nel Reaganismo, che rifiutando la guerra “by proxy “, impegna una sfida con l’URSS che alla fine la farà capitolare, mettendo così fine alla Guerra Fredda.

Oggi, dopo circa 35 anni da allora, l’impero sembra ricaduto nella depressione: una leadership inadeguata (mi scusi Fabbri se ancora parlo di leadership), una nazione arrancante e sempre più disunita, l’incapacità di assimilare le ultime ondate di migranti che sembrano più disgregare che unire il Paese, anche se le minoranze ispanofone hanno dimostrato uno spirito di sacrificio molto più grande delle minoranze afro-americane durante le ultime sfortunate guerre.

Sarà questa l’ultima grande depressione che metterà fine all’impero che abbiamo conosciuto fino ad oggi , quell’impero che scenderà a patti con altri imperi emergenti , accettando un ruolo seppur importante ma non più esclusivo e di fatto non più il dominatore globale? Azzardare un pronostico non sembra particolarmente agevole. Non penso si possa ancora escludere che, specialmente nel prossimo mandato presidenziale, possa riaccadere quel “colpo di reni “ che già nel passato ha spiazzato imperi molto più radicati nella realtà del tempo. Nel caso questa fosse la “depressione fatale” non mi sento, come fanno molti altri personaggi, di gioirne: già schiere di ex servitori si preparano a passare alla corte del futuro imperatore, giacché la caratteristica di questa generazione occidentale sembra essere la mancanza di aspirazioni, ma temo che -in tal caso- il passaggio non sarà indolore e non solo per chi dovrà lasciare il primato. Ricordiamoci che la prima cosa che fa un leone appena ha spodestato il vecchio capobranco è quella di ucciderne i cuccioli per far andare ancora in calore le leonesse e garantirsi una prole propria. E non dovrebbe passarci neppure per la testa che noi siamo le leonesse. [Mauro Scorzato]

sabato 22 giugno 2024

Dario Fabbri, "Geopolitica umana" - Una nota di Ettore Martinez


Dario Fabbri, "Geopolitica umana - capire il mondo dalle civiltà antiche alle potenze odierne" ediz. Gribaudo 2024

Che cos'è la Geopolitica? Leggiamo e sintetizziamo dal web una definizione generale: essa sta a indicare un modo di riferirsi e di studiare le relazioni esistenti fra la geografia fisica, la geografia umana e l'azione politica.

In altri termini i rapporti fra i popoli.

Dario Fabbri, proveniente dal gruppo di "Limes", ha da tempo dato vita a una propria tendenza analitica che chiama "Geopolitica umana".

Sua caratteristica saliente è quella di studiare l'interazione fra una collettività (i leader a suo avviso non sono mai determinanti ma semmai agìti) e la Storia, perché "soltanto ciò che è stato incide sul presente". Incrocia quindi la geopolitica classica, oltre che con la storia, con l'antropologia e con la psicologia collettiva. Cioè con il "comune sentire" di una popolazione, entrando così anche nel suo "parlato", che ne rappresenta sempre l'espressione inconsapevole.

Si interessa allora di etnografia e della pedagogia nazionale. Quest'ultima è la Storia insegnata a scuola. Potremmo dire che con ciò realizza si un "Erlebnis", un'immedesimazione che sola ci permette di entrare nell'orizzonte di senso di un popolo e di intuirne la "traiettoria".

Praticando questo genere di gnoseologia, per esempio, ci si rende conto che non tutti i popoli desiderano ardentemente la nostra Democrazia o la Pace e che sono spesso lontanissimi dai nostri Valori e dai nostri sensi di colpa.

Ho parlato di "popoli" ma Fabbri chiarisce subito che i veri attori geopolitici sono sempre le nazioni o gli imperi.

Fra questi, il discrimine fra stati "massimalisti" -cioè tendenti più alla potenza che all'economia- e stati "post-storici", cioè in fase di arresto e/o di soggezione ad altri stati o imperi, è dato dalla *demografia*.

I popoli invecchiati, composti cioé da una maggioranza di anziani, tendono -secondo Fabbri- a ritenere superata e inutile la guerra; sono propensi ad evitare il dolore e le privazioni. Rifiutano finché è possibile la violenza perché ingiusta e inutile e ritengono così di averla eliminata. Non è detto però che anche gli altri concordino con questa loro decisione.

Popolazioni massimaliste e "imperiali", per Storia e vocazione, sono gli USA che, con l'assimilazione, reintegrano i giovani e contrastano l'invecchiamento, la Russia, la Cina, la Turchia e il *giovane* Iran.

Di quest'ultimo si tende spesso a fraintendere l'opposizione interna che tutto significa tranne desiderio di praticare la Democrazia occidentale (di origine americana-francese) che viene storicamente praticata in Occidente.

Questi massimalisti sono imperi e praticano l'assimilazione (che ha i suoi aspetti coattivi) in funzione, sempre, della potenza, laddove noi in Italia, per esempio, alla ricerca dell'economia, pratichiamo l'integrazione che ci mantiene nella multiculturalità.

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Al punto - ma questa è una mia opinione personale- di rinunciare spesso ai nostri usi e costumi tradizionali per compiacere gli ospiti; questo per via di sensi di colpa e di un civilissimo relativismo culturale. Qui vorrei però continuare a seguire Fabbri e astenermi da valutazioni morali e/o politiche.

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In questa analisi "demologica", mi si passi la curvatura di un termine oggi desueto, sta a mio avviso il cuore gnoseologico della geopolitica umana di Fabbri.

Il libro, che consta di 210 pagine suddivise in XII capitoli, mostrandoci di questa ottica l'applicazione a situazioni specifiche e a momenti storici , ci dice ovviamente molto di più. Le implicazioni geopolitiche infatti, come si può ben vedere, sono tante.

Ettore Martinez

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“temprando lo scettro a' regnatori
gli allòr ne sfronda, ed alle genti svela
di che lagrime grondi e di che sangue”

Ugo Foscolo, “I Sepolcri”

Nel suo recente “Geopolitica umana – capire il mondo dalle civiltà antiche alle potenze odierne” (Edizioni Gribaudo, 2024), Dario Fabbri si preoccupa innanzitutto di chiarire in che cosa consista propriamente la sua Geopolitica, di che cosa si interessi e con quale approccio metodologico-epistemologico.

« In formula: la geopolitica umana studia l'interazione tra collettività collocate nello spazio geografico calandosi nello sguardo altrui. Oggetto della sua analisi sono le aggregazioni umane, in ogni realizzazione storica. Tribù poleis, comuni. Fino all'epoca corrente, dominata dagli stati-nazione, dagli imperi. Mai i singoli individui. Tantomeno i leader » (op.cit. pag.12).

Più avanti -ed eccoci al punto che maggiormente ci ha interessato- Fabbri aggiunge: «Come nella gnoseologia di Alexandre Kojève, questa geopolitica indaga il “mondo storico”, frutto del lavoro degli uomini, non quello naturale » (pag. 13).

Secondo Giulia Merlino - laureata in Filosofia con la tesi “Aporie della fine – Il pensiero di Alexandre Kojève” (1)- “il parallelismo tra geopolitica e gnoseologia kojèviana è sicuramente da rintracciare nel ruolo della negazione (dialettica ma non solo): ossia, si dà discorso solo dell'azione umana, mai della natura, perché l'uomo conosce solo ciò che nega, cioè *ciò che trasforma*.(2)

Ci sembra di capire quindi che Diego Fabbri ritenga fondamentale, per conoscere bene gli assetti e le “traiettorie” di un popolo, riferirsi al suo patrimonio storico,cercando di acquisirne dall'interno vissuti e credenze; direi addirittura dai suoi “Erlebnis” collettivi più che da logiche o modelli che rispondono ai nostri criteri culturali.
Ci sono infatti, a suo avviso, popoli che mettono al primo posto la potenza, anche a scapito dell'interesse economico. Sono i popoli che Fabbri chiama “massimalisti”.

Giulia Merlino sottolinea nel suo lavoro come Kojève si differenzi anche da Marx, al pensiero del quale pure fa solitamente ricorso per curvare Hegel, nel mettere hegelianamente al primo posto come motore della Storia la propria personale visione del famosissimo rapporto (3) ”Signoria-Servitù, cioè la lotta mortale per il “riconoscimento”, nella quale chi ha paura diventa servo.

Infatti
“« ... laddove per Marx la storia si originava nella creazione dei mezzi di produzione per il soddisfacimento dei bisogni elementari dell'uomo, per Kojève essa aveva con la Lotta “per il puro prestigio”:
[scrive infatti Kojève]
“(…) Marx ha avuto il torto di semplificare e di amputare la concezione hegeliana. Per Hegel, l'atto di lavorare ne presuppone un altro, quello della lotta per il puro prestigio, che Marx non ha riconosciuto nel suo giusto valore.” (4) »

Prestigio, “volontà di potenza” che nella Geopolitica umana di Fabbri sta invece al centro dell'attenzione, quando vogliamo individuare le “traiettorie” dei popoli dominanti, laddove quelli dominati (spesso anche demograficamente anziani) ricercano piuttosto la pace e i vantaggi economici.

Giulia Merlino prosegue sottolineando come questa forzatura del pensiero di Hegel da parte di Kojève, conduca quest'ultimo a credere in « uno Stato fondato sulla “gloria” (…) invece che sull'appropriazione dei mezzi di produzione da parte della classe lavoratrice»

“Nessun ricorso alla virtù o alla moralità, come propone Leo Strauss, potrà cambiare la realtà. Al contrario Kojève vi contrappone l'«immoralità», perché è la storia a incaricarsi di giudicare, «attraverso la 'riuscita' o il 'successo', le azioni degli uomini di Stato o dei tiranni».
Marco Filoni, in “liMes – rivista italiana di geopolitica”, novembre 2023

Per questa nota sintetica si ringrazia vivamente la Prof.ssa Giulia Merlino di Messina.

NOTE

(1) Università di Messina (Triennio accademico 2006-2008)
Relatore Prof. Girolamo Cotroneo.

(2) “In questo senso, esiste - certo - una gnoseologia kojèviana, nei termini di una teoria della conoscenza come formazione del discorso, ma chiaramente fa i conti con la dottrina centrale della fine della storia che è anche - in qualche modo - una fine del discorso. Kojève pensa la Storia in termini di un graduale superamento sia dello Stato nazionale che dei popoli in quanto tali, anche se c'è tutta una fase intermedia - quella degli imperi - che ancora mantiene un qualche appiglio con la vecchia geopolitica” Giulia Merlino.

Ricordiamo che la tesi della Prof.ssa Merlino è incentrata prevalentemente sulla “fine della storia” in Kojève (e quindi in Hegel) e che sviluppa una sua propria analisi lungo questa direttrice.

(3) Rapporto che come è noto viene trattato nella “Fenomenologia dello Spirito” di Hegel e che è stato molto studiato e discusso.
(4) A. Kojève, “Linee per una fenomenologia del diritto” 


Ettore Martinez

martedì 20 febbraio 2024

"Comandante", una recensione (2023) di Antonello Ruscazio del film di E. De Angelis



 

Una recensione di Antonello Ruscazio

"Comandante"

film del 2023 diretto da Edoardo De Angelis                                                                          Sceneggiatura Edoardo De Angelis,Sandro Veronesi            Protagonista Pierfrancesco Favino nel ruolo di Salvatore Todaro

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Da italiano, e da italiano orgoglioso di esserlo, non posso che ringraziare la produzione del film per la sua determinazione nel voler portare sugli schermi questo episodio della IIa G.M. e, se esprimerò quindi qualche critica, non vuol dire minimamente che io sconsigli la visione del film, anzi.

Avevo visto, prima dell’uscita del film, alcune foto del set in cui veniva girato ed avevo avuto quindi modo di apprezzare molto positivamente la fedeltà della ricostruzione dell’opera morta (per i non tecnici: la parte della nave che sta sopra la linea di galleggiamento) del R. Smg. “Comandante Cappellini” (sommergibile oceanico della classe Marcello, 1059 tonnellate di dislocamento in superficie, 1313 in immersione), ma immaginavo già prima di vederlo che che nel film ci sarebbero stati molti errori “tecnici”, come in tutti i fim sui sommergibili, per cui ero preparato.

Occorre tenere presente che ho visto il film al cinema e quindi, non potendo chiedere all’operatore di portare indietro la pellicola e farmi un fermo immagine, alcune delle cose che esporrò in queste righe, che non intendono essere un’esegesi dell’opera cinematografica o il resoconto delle missioni del “Cappellini" in Atlantico, sono il frutto di una visione piuttosto fugace, che cercherò di mettere a punto qualora riuscissi a trovare una versione DVD.

Iniziamo con la partenza.

A mia informazione la partenza di un sommergibile, soprattutto nei primi mesi del conflitto, avveniva in maniera ben diversa da quella da tragedia greca mostrata nel film: mi sembra strano che il Comandante della Squadriglia sommergibili (almeno...) alla quale il “Cappellini” apparteneva sia rimasto sotto le coltri, non fosse presente una banda musicale e le signorine in abbigliamento non dico da da moderna “influencer” ma di certo non consono agli standard di dignità delle donne dell’epoca che si vedono nel film non abbiano gettato mazzi di fiori.

Questa chiamiamola così “coreografia” aveva i suoi precisi significati: uno evidentemente propagandistico, e un altro, più importante, che doveva far ricordare all’equipaggio che la Nazione considerava i sommergibilisti la crema della crema delle proprie Forze Armate e che quindi, una volta chiusi in un tubo d’acciaio a decine di metri sotto la superficie del mare e a contatto con il nemico, l’intera Nazione avrebbe contato su di loro.

Non si può essere tuttologi e non sono un esperto di uniformologia, ma la foggia del berretto del Comandante Todaro mi sembrerebbe più simile a quello di un “Seniore” della “Milizia Volontaria Sicurezza Nazionale” che a quallo di un Capitano di Corvetta della Regia Marina di allora, colore a parte. Mah…

Episodio molto verosimile invece quello in cui il Comandante Todaro ispeziona l’equipaggio e non fa imbarcare un Sottocapo elettricista perché visibilmente sofferente.

Il medesimo episodio si verificò alla partenza di quella che fu l’ultima missione del più famoso e più vittorioso sommergibile italiano ( e forse di tutta la IIa G.M. : non furono molti quelli che misero fuori combattimento due corazzate nella stessa missione...) il R.Smg. “Scirè”, salvandogli in tal modo la vita. Il marimaio in questione, che diventò poi un imprenditore di successo, non si diede mai pace per non aver partecipato a quella missione. (Episodio raccontatomi personalmente dalla Figlia).

Marcon”

Usa il fischietto e sembrerebbe quindi il nostromo, in quanto l’uso del fischietto non si addice alla dignità di un Ufficiale, ma un nostromo, benché persona di grande autorità a bordo, non può di certo avere una tale familiarità con il Comandante.

Ma ancora meno verosimile sono le sue sembianze da vecchio Nettuno decisamente in là con l’età: di certo a bordo dei sommergibili si invecchiava presto (se si invecchiava…) ma era raro che ci fossero a bordo persone oltre i trent’anni, perché solo giovani e giovanissimi avrebbero potuto resistere all’estrema durezza della vita e dei combattimenti a bordo.

Marcon” sarebbe stato quindi sbarcato da parecchi anni. Lo stesso C.C. Salvatore Todaro, nato nel 1908, nel 1940 aveva 32 anni e quindi anche la figura dell’attore protagonista non sembrerebbe forse delle più adeguate.

Ero giovanissimo allora ma ricordo perfettamente: guardavo un film su un sommergibile americano con mio Zio Luigi, fratello di mio Nonno Antioco, entrambi sommergibilisti, mio Nonno durante la Ia G.M., mio Zio negli anni ’20: (qui la sua foto)

https://cliolamusadellastoria.blogspot.com/.../hitlers-u... )

che si mise a ridere fragorosamente quando vide che alcuni marinai avevano la sigaretta in bocca. È vero che si trattava di un film americano, e a bordo dei sommergibili americani, in particolarissime situazioni, poteva essere concesso di fumare una sigaretta ma, di certo, non sui sommergibili dell’Asse.

Sempre a mia conoscenza, a bordo dei sommergibili italiani era vietato radersi senza l’autorizzazione del Comandante. L’acqua dolce infatti non serviva solo per bere, ma soprattutto per le batterie di accumulatori per la propulsione e le utenze di bordo, che la divoravano. Il T.V. Gino Birindelli, in occasione dell’operazione “GB2” chiese al Comandante Junio Valerio Borghese il permesso di farsi la barba, con queste parole: “Signor Comandante, poiché un gentiluomo si rade prima di uscire di casa, e visto che non è improbabile oggi un incontro con qualche gentiluomo inglese, chiedo il permesso di potermi radere. ”

Sui sommergibili americani le cose erano diverse, in quanto, essendo di dislocamento molto maggiore per poter affrontare le lunghissime distanze dell’Oceano Pacifico, avevano a bordo potenti impianti di dissalazione.

Episodio del campo minato.

Episodio quanto mai inverosimile. Non potevano esserci campi minati a Gibilterra per una duplice ragione: la prima perché le acque territoriali attorno e di fronte a Gibilterra sono acque territoriali spagnole o controllate dalla Spagna, e gli spagnoli non avrebbero di certo apprezzato la creazione di campi minati nelle loro acque territoriali; la seconda perché, dal punto di vista tecnico, l’ancoraggio di mine in fondali come qualli attorno a Gibilterra, profondi e percorsi da forti correnti, non era semplicemente possibile. Dato inoltre il vasto traffico britannico da e verso Gibilterra, le mine britanniche avrebbero causato molto probailmente più vittime amiche che nemiche.

Da notare come gli addestratissimi equipaggi dei sommegibili tedeschi ebbero sempre problemi nell’attraversamento dello Stretto, mentre non ne ebbero i sommergibili italiani.

Ma assolutamente inverosimile è la scena del coraggioso marinaio, corallaro di Torre del Greco (se non ricordo male) che esce dal sommergibile con l’A.R.O. (autorespiratore a ossigeno), taglia il cavo di ancoraggio della mina, libera il sommegibile e muore.

Primo. Se il “Cappellini” fosse incappato in un campo minato non ci sarebbe stata nessuna scena del genere: l’equipaggio avrebbe sentito esclusivamente il sinistro stridio dello strisciamento del cavo sulla fiancata e due o tre scondi dopo lo scoppio. Et finis…

Secondo. La pesca del corallo non avveniva, come oggi, con l’immersione di sommozzatori, ma con un particolare attrezzo, detto “ingegno”, che veniva trascinato sul fondo. Comunque, correttamente, nel film il marianaio si preoccupa perché l’autorespiratore a ossigeno è un attrezzo molto pericoloso e può essere usato con sicurezza sino a profondità massime di 18/20 m in quanto, se la pressione parziale dell'ossigeno supera le 1,3-1,4 atmosfere, si ha il fenomeno dell’avvelenamento da ossigeno.

L’A.R.O. viene usato dalle Marine militari perché, a differenza di quello ad aria (utilizzabile sino a 100 m di profondità, e oltre), non emette bolle ed ha una maggiore autonomia.

Nel 1940 l’A.R.O. era un’attrezzatura ancora sperimentale e dubito che fosse presente a bordo del “Cappellini”, men che meno la modernissima versione che indossa il marinaio….

L’attaco dell’aereo avvenne in una missione successiva rispetto a quella di cui il film tratta (ottobre 1940), e precisamente il14 gennaio 1941.

In 1122 8° 53'N, 14° 56'W Alle 11.20, il Cappellini stava per immergersi quando fu avvistato un aereo. Due minuti dopo, sganciò quattro bombe che colpirono il sottomarino all'estremità di prua e al centro della nave. L'attacco era stato effettuato da un Walrus del 710 Squadron (FAA) dell'idrovolante HMS Albatross con base a Freetown. In realtà aveva sganciato tre bombe A/S da 100 libbre.

Il sottomarino venne gravemente danneggiato e dovette rifugiarsi a Luz (Gran Canaria) per le riparazioni.

L’aereo del film non è un idrovilante Walrus ma sembra un Spitfire degli ultimi modelli costruiti durante la guerra, riconoscibile per il doppio radiatore sotto le ali. Nel 1940 gli Spitfire valevano l’oro che pesavano per la difesa delle Isole britanniche e passerà un bel po’ di tempo prima che siano inviati oltremare.

Ma, a parte il modello dell’aereo, ovviamente trovare un Walrus in condizioni di volo oggi è impossibile (btw: il Walus e lo Spitfire vennero progettati entrambi dal famoso progettista aeronautico R. Mitchell) non convince il numero eccessivo di marinai presenti in coperta. Che cosa ci stavano a fare? Per un sommergibile è vitale la velocità di immersione e ogni uomo in più in coperta significa il suo rallentamento, oltre a presentare pericoli di vario genere.

Una certa liberalità era concessa nei primi tempi del conflitto solo nel cosiddetto “air gap”, una zona al centro dell’Atlantico dove l’autonomia degli aerei alleati non riuscì a coprire la zona, per mezzo di quadrimotori a lungo raggio e con le portaerei di scorta, se non a partire dal 1943.

Il sommergibile nel film emette troppo fumo! Aveva un motore diesel, non un motore a vapore!

Quello che un comandante di sommergibile proprio non apprezzerebbe è la possibilità di individuazione del proprio battello a grande distanza. Ergo, se il sommergibile avesse emesso tutto quel fumo, “cazziatone“ del Comandante al Tenente G.N. responsbile e via via, in scala gerarchica, sino all’ultimo dei sottocapi presenti in sala macchine.

A proposito, mi sembrerebbe di aver visto una targhetta “FIAT” apposta sui motori del sommergibile. Se ho visto bene, è è un particolare esatto, in quanto il “Cappellini”, ed il gemello “Comandante Faà di Bruno” ebbero motori diesel FIAT, mentre le nove unità precedenti della medesima classe avevano motori CRDA.

Molto criticato, in tutti i commenti che ho letto, è stato l’episodio delle “patate fritte e del mandolino”.

Certo dal punto di vista cinematografico non mi sembra una scena da Premio Oscar, ma personalmente mi inizia a diventare noiosa la ripetizione del “sempre la solita solfa degli”italiani, brava gente..:”, letto in tutti i commenti.

È certamente fondamentale indagare pienamente su qualsiasi episodio avvenga in guerra, ma questo completo rovesciamento che vedeva le truppe italiane dapprima appunto come “brava gente”, per poi cambiare repentinamente facendo apparire gli italiani come poco diversi dalle truppe delle Divisioni Totenkopf mi sembra solo una ulterione dimostrazione della consueta mancanza di obbiettività di taluni storici (?) italiani ma non solo, soprattutto quelli più schierati ideologicamente.

Per cui penso sia meglio lasciare la parola al “nemico” di allora:

“… L’esercito sovietico marciava verso occidente, i prigionieri di guerra verso oriente. I rumeni avevano cappotti verdi e alti copricapi di astrakan. Sembravano patire il freddo meno dei tedeschi. Guardandoli, Darenskij non vedeva i soldati di un’armata sconfitta, ma una fiumana di migliaia di contadini stanchi e affamati con strani cappelli in testa. Di loro ci si faceva beffe, ma li si guardava con pietoso disprezzo, senza astio. Solo gli italiani, avrebbe visto poi, godevano di un’indulgenza ancora maggiore.”

Grossman, Vasilij. Vita e destino (Italian Edition) (p.955). Adelphi. Edizione del Kindle.

Antonello Ruscazio


Una recensione di Antonello Angioni - "Diario di Giovanni Sardu, militare “prigioniero” dei tedeschi nel 1944-45" a cura di Angelo Abis, editore Pietro Macchione, 2024.

  Diario di Giovanni Sardu, militare “prigioniero” dei tedeschi nel 1944-45 di Antonello Angioni Tra i meriti da ascrivere a Pietro Macchion...