venerdì 8 dicembre 2023

I Mille di Bandi, una recensione di Mauro Scorzato


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Giuseppe Bandi , l’estensore de “I Mille” è il classico toscano dell’800. Nella sua biografia si legge che fu laureato in Giurisprudenza ma non praticò mai,e che da buon repubblicano e mazziniano, dopo la galera di prammatica, preferì arruolarsi subito in un battaglione di volontari toscani (erano quelli tempi in cui gli studenti non irridevano i militari ma ne traevano esempio) per poi transitare nell’esercito dei Savoia (allora Armata Sarda) dopo l’annessione del Granducato.

Durante la sua prima esperienza militare ebbe a conoscere Garibaldi, di cui subito si innamorò, subendone il fascino nel modo in cui solo un uomo d’azione può subirlo. Infatti alla prima occasione preferì abbandonare L’Armata Sarda per l’avventura che lo vide, al fianco del suo leader, portare forse la più grande delle vittorie alla casata per la quale non avrebbe dovuto avere grandi simpatie. La narrazione dell’avventura dei “Mille” avviene, per sua stessa ammissione, in forma memorialistica ma, assai spesso, fa riferimento a fatti e conversazioni di cui gli venne riferito da persone, come egli stesso le definisce, “a me fidate”.

Il ritratto che ne esce dell’impresa dei Mille è senz’altro il ritratto dei personaggi che la condussero, al di là di tutte le difficoltà e di tutte le volontà avverse, di una fede ferrea che oggi, affetti come siamo dal relativismo filosofico, ci risulta incomprensibile. Smontati tutti gli dèi, con un anticlericalismo acerrimo, ma che non disdegna di assorbire quei religiosi che credano anch’essi nella causa ( all’arrivo in Sicilia tutti gli ordini religiosi, con particolare riferimento ai gesuiti, furono sciolti col primo editto), l’unica vera religione diventa la riuscita dell’impresa.

Invano il lettore cercherà dettagli militari che possano spiegare come una masnada di personaggi male in arnese, male armati, con un addestramento approssimativo, scarsi di tutto tranne che di nemici siano riusciti a sbaragliare uno degli eserciti meglio equipaggiati ed addestrati del tempo nella penisola. Ricordiamo infatti che l’esercito Borbonico fu il primo a praticare il tiro mirato anziché le “volate”, cosa di cui anche il nostro farà le spese. Sembra che tutto possa essere risolto con una carica furiosa, con una mischia feroce purché benedetta dalla presenza dell’Eroe dei due Mondi, divinizzato,ancor più che ammirato per le sue capacità di condottiero.

Solo con l’apparire di Mazzini, che ricorda a Bandi, repubblicano della prima ora, che Vittorio Emanuele II rimane pur sempre un sovrano, la fede comincia a mostrare qualche timida crepa subito ricoperta dallo stucco della fiducia sull’unità del Paese.

Solo verso la fine del libro alle formazioni garibaldine si affiancano le più ordinate e disciplinate unità dell’Armata Sarda, che in fondo snobbano (quando non proprio disprezzano) quei militari fai-da-te indisciplinati, scalcagnati ma costantemente pronti al combattimento. Pur sapendo che alla fine quelle strane figure in camicia rossa sarebbero state assorbite in quello che diverrà dopo il 1861 il Regio Esercito Italiano e sarebbero quindi ritornati ad essere “colleghi”, gli ufficiali sabaudi trovavano forse più affinità con gli sconfitti ufficiali borbonici che con quegli ufficiali parte raccolti dalla politica senza alcuna cultura militare, parte addirittura disertori dell’Armata Sarda. Rimane interessante vedere con quanta allegria venisse interpretata la diserzione a quei tempi, quando solo pochi anni dopo i disertori fronteggeranno i plotoni d’esecuzione e non a caso viene spesso citato come esempio Giovanni delle Bande nere, al secolo Giovanni de’Medici, noto Capitano di ventura).

Solo chi ha conosciuto forse più nel dettaglio la Storia dell’Esercito Italiano vedrà la nascita di quei caratteri che da allora fino ad oggi lo caratterizzeranno; da un lato gli ufficiali “sabaudi” ligi all’autorità costituita, e vicini al potere che genereranno negli anni personaggi quali Badoglio e Diaz, dall’altra i “garibaldini” che nel proseguo diverranno gli Arditi nella Prima Guerra Mondiale o gli ufficiali coloniali e le forze speciali italiane che tanto diedero filo da torcere agli anglo americani nella Seconda guerra mondiale.

Il Bandi alla fine diverrà giornalista, fonderà il quotidiano di Livorno “il Telegrafo” (che oggi si chiama “il Tirreno”). Utilizzò tutte le energie fisiche e morali per continuare a difendere quell’ideale di Italia, anche senza rifuggire da quei compromessi che nel divenire di quegli anni si rendevano necessari per perseguire il suo fine ultimo. Come tutti gli idealisti di quel tempo, gli occhi rimanevano fissi sul fine e come dirà qualcuno se mantenendo gli occhi sul fine si calpesta qualcosa di sporco, pazienza.

Terminerà la sua vita accoltellato a morte da due anarchici per la strenua difesa dei valori del Risorgimento che aveva condotto dalle colonne del suo giornale: chi prima di assassinarlo, lo aveva minacciato di morte non aveva capito il calibro dell’uomo che aveva di fronte. Se le pagine del suo libro hanno descritto la sua personalità fedelmente, non avrebbe voluto morire in nessun altro modo.

Mauro Scorzato


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