Difficile stabilire cosa sia nato in quei brutti (sia per le vicende che per la meteorologia) giorni della primavera del 1916 tra veneti ( in particolare vicentini) e i sardi. Si stavano compiendo gli ultimi sforzi della Strafe expedition, operazione che poi scopriremo non si è mai effettivamente chiamata “spedizione punitiva” bensì “Nach Po” ossia “al Po “ a designare l’obbiettivo finale della spedizione Vicenza e con essa la ferrovia che riforniva le armate del Carso, era già visibile alle truppe austro-ungariche. Ed ecco che quell’ultimo sforzo si infrange sulle Melette,ultime propaggini dell’altipiano di Asiago prima dell’agognata pianura. A difendere con successo quell’ultimo bastione, oltre alle truppe di “casa”, autoctone, gli alpini, c’è una brigata di gente che ha ben poco a che fare con gli altipiani, le montagne e il clima gelido: sono i sardi della “Sassari”. A quei tempi, poche persone si avventuravano sulle montagne e gli unici “meridionali” che quelle popolazioni avevano conosciuto prima della guerra erano i militi della Guardia di Finanza, che erano visti come fumo negli occhi. Erano considerati corrotti e donnaioli, capaci di trasformare ogni sequestro di merce di contrabbando in bottino e quindi spinti più dalla avidità di generi a buon mercato che dal senso del dovere; oltretutto incapaci di confrontarsi con i locali qualora dovesse sorgerne la necessità.
Anche le truppe che venivano fatte affluire sull’Altipiano nel 1915 non brillavano proprio per spirito combattivo, quantomeno rispetto alle truppe alpine.
Ma improvvisamente, quando tutto sembra perduto arrivano dei “meridionali” che del meridionale hanno poco: combattono con una ferocia da intimidire anche i bosniaci che si trovano di fronte, muoiono come le mosche e non si lamentano. Quando scendono a valle per i turni di riposo se ne stanno tra di loro cantando strane melodie e facendo stani giochi con le mani; chi fra loro avvicina le donne locali cerca più un calore familiare che non una torrida avventura, e aiuta al lavoro col bestiame se glielo chiedono.
No, decisamente sono diversi, anche se sono scuri allo stesso modo e non vengono capiti quando parlano fra di loro. I vicentini conoscono anche gli austro-ungarici; sono stati sudditi dell’Aquila Bicipite per circa 150 anni e sanno che i vecchi padroni non dimenticano e, soprattutto, non perdonano. Erano felici cittadini della Repubblica di Venezia e prosperavano prima dell'arrivo dei vecchi padroni. Ma all’arrivo di questi ultimi, col trattato di Campoformio, si sono ritrovati succubi della Lombardia, a cui gli austriaci attribuivano la massima importanza in quanto provvedeva i filati per tutto l’impero. Al Veneto era rimasto il compito di provvedere al sostentamento alimentare della Lombardia e questo anche a scapito del proprio. Con le rivolte del 1848-49 avevano fatto sputare pallini alle truppe di Radetzky, resistendo testardamente in assedi estenuati da parte di forze superiori sia in numero sia quanto a esperienza bellica e ne avevano ottenuto degna retribuzione: meno cibo e soprattutto niente istruzione, dal momento che i più indomiti combattenti si erano proprio dimostrati quegli studenti che sarebbero dovuti essere il nerbo della efficientissima burocrazia dell’Aquila Bicipite. Le uniche scuole ammesse erano quelle religiose, in cui si insegnava come prima materia la fedeltà al Sacro Romano Imperatore, Francesco Giuseppe.
Poi a partire dal dal 1861 le cose non erano migliorate granché, col clero che fomentava la rivolta contro i sovrani Savoia “apostati e massoni”, avendo buon gioco sul neonato Regno d’ Italia che aveva bisogno sia di soldati che di denari. Ma adesso sembrava che il Re avesse veramente mandato qualcuno che ci sapeva fare, non solo a combattere ma anche a costruire gallerie per le strade, cosa veramente difficile in montagna. E così ancora oggi , dopo più di cento anni da quei momenti , quel legame tra Veneti e Sardi non solo è rimasto, ma si è rinsaldato. Prova ne sia l’ammirazione, sentimento di cui i Veneti sono particolarmente sparagnini, verso i Sardi, specialmente quando vestono una uniforme.
In questo ambito, di condivisioni di un passato che moltissimi sentono rivivere ogni qual volta le vicende permettono a coloro che hanno valori comuni di riunirsi, si svolge la vicenda del cippo di Posina narrata dall’amico Madeddu.
Il riapparire di un cippo che riporta alla superficie eroi oramai, purtroppo, dimenticati e anonimi nella loro grandezza. Ragazzini appena ventenni (ma allora a vent’anni si era uomini), padri di famiglia provenienti da zone lontane se non geograficamente quanto meno culturalmente dalle montagne venete, appartenenti a unità non certo blasonate (tutti i reggimenti iniziano col due, a significare: formati con i riservisti che non avevano precedentemente svolto servizio) ma determinati a non “mollare”, a non farsi soverchiare dalle persone che avevano di fronte. Momenti di cui , insieme a tanti altri, abbiamo perso la memoria e non solo. Con la memoria abbiamo perso l’orgoglio di essere quello che siamo e quelli a cui ciò piace ne vanno fieri. Per chi ancora ha coscienza dei tempi in cui vive, lo squarcio nella storia che ci riporta alle vite di questi soldati genera un momento di forte riflessione, specialmente di questi tempi in cui lo scontro di civiltà ( ma qualcuno direbbe “di civiltà contro barbarie” trasponendo in un quadro ideologico il conflitto) che non sarebbe più dovuto esistere sta ritornando prepotentemente nelle nostre vite. La domanda egoista che ne scaturisce è: “Ma di gente così ne abbiamo ancora??”.
Dal 19 settembre 1917 il settore del Trentino afferente alla 1a Armata veniva riordinato in: – XXIX° Corpo d’Armata, con le divisioni 37a e 27a, al comando del Ten. Gen. De Albertis, dispiegato dalla sponda orientale del Lago di Garda alla Vallarsa; – V° Corpo d’Armata, con le divisioni 55a e 69a, al comando del Ten. Gen. Zoppi, schierato, dalla Vallarsa alla Val di Posina; – X° Corpo d’Armata, con le divisioni 32a e 9a, al comando del Ten. Gen. Bloise, che occupava la linea dalla Val Posina alla Val d’Astico; – XXVI° Corpo d’Armata con le divisioni 12a e 11a, al comando del Ten. Gen. Fabbri, dispiegato dalla Val d’Astico alla Val d’Assa; – XXII° Corpo d’Armata con le divisioni 57a e 2a, al comando del Ten. Gen. Gatti, impegnato nella linea dalla Val d’Assa alla Val Frenzela; – XX° Corpo d’Armata con le divisioni 29a e 52a, al comando del Ten. Gen. Ferrari schierato dalla Val Frenzela alla Valsugana. I tre Corpi d’Armata XX°, XXII° e XXVI° andarono a formare il ricostituito Comando Truppe Altipiani, disciolto dopo l’arresto della Strafexpedition. La Ia Armata poteva così contare su: – 122 battaglioni di cui 29 di alpini e 3 di bersaglieri; – 1483 pezzi di artiglieria di diverso calibro; – 17 squadriglie di aeroplani Per un totale di 12.000 ufficiali e 322.000 uomini di truppa. Di contro lo schieramento avversario era costituito da: – 56a Divisione Schutzen da cui dipendevano l’88a, 28a e 141a Brigate fanteria; – XIV° Corpo “Edelweiss”, costituito dall’8a Divisione Kaiserjäger e dalla 15a Brigata fanteria; – III° Corpo costituito dal Gruppo Vidossich e 19a e 6a Divisione; – 18a Divisione e Gruppo Schönner. Per i nostri scopi è utile descrivere anche l’ordinamento della 69a divisione incardinata nel V° Corpo d’Armata italiano, comandata dal Magg. Gen. Giovanni Croce, così costituita: – Brigata Piceno, 235° e 236° reggimenti fanteria, comandata dal Col. Brig. Battista Gagliardo; – Brigata Pallanza, 249° e 250° reggimenti fanteria, al comando del Brig. Gen. Giovan Battista De Angelis; – Battaglione alpini Monte Saccarello, (compagnie 107a, 115a, e 120a); – 9° Reparto d’assalto; – CCXXXV° Battaglione di Milizia Territoriale; – 11 compagnie mitragliatrici; – 31° reggimento artiglieria da campagna; – 2 batterie someggiate; – 1 batteria mortai da 149 – XVIII° Battaglione genio zappatori (20a, 44a, 50a compagnie) A disposizione del comando di settore anche il LXIX° Battaglione genio con la 113a, 120a e 160a compagnia. Fig. 2 – Posizionamento del V° e X° Corpo d’Armata e della 69a Divisione La notte del 18 ottobre 1917 il nemico si lanciava in tre successi attacchi sulla linea Monte Maio – Cavallaro, coinvolgendo la linea del X° Corpo d’Armata, respinto tornava all’attacco una quarta volta riuscendo, questa volata, ad infiltrarsi nella Selletta dei Roccioni di Monte Maio.
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